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Intervista a Paolo Roversi

Incontriamo Paolo Roversi nella splendida sede della SEM tra vino, focacce e salame per parlare del suo nuovo thriller, la seconda “fuga da casa” come la definisce l’editore Riccardo Cavallaro. È infatti il secondo romanzo pubblicato dalla casa editrice milanese, mentre la produzione seriale di Roversi procede con Marsilio. Ecco le domande che abbiamo posto, insieme agli altri blogger presenti. Più in basso domande e risposte di una vecchia intervista, realizzata quando Paolo e Mangialibri erano entrambi agli esordi: e tutti e due di strada ne abbiamo fatta, eh…




Preferisci scrivere gli stand alone o ti senti più a tuo agio quando scrivi di Radeschi, il tuo personaggio seriale?
Avere una serie e fare dei romanzi stand alone sono cose molto diverse, questi sono romanzi adrenalinici, con molti colpi di scena, è proprio diverso il modo di scrivere. Ci sono dei colpi di scena anche lì, ma è un’altra cosa. Un seriale è un po’ come tornare a casa, sia per l’autore che per i lettori che conoscono il personaggio. Già dalla prima pagina, quando Radeschi accende la sua Vespa, al lettore non devi spiegare niente, sa già tutto. Ogni romanzo nuovo invece è una sfida, ci vogliono trenta-quaranta pagine per entrare in sintonia. Io amo cominciare sempre col morto, perché secondo me comunque, il lettore di gialli quello vuole, cerca la suspence, vuole entrare subito nel mood, poi Psychokiller è un libro relativamente corto, quindi non si può tirarla lunga, bisogna che ci sia da subito l’azione. L’hanno scorso ho fatto anche un libro per ragazzi, mi piace spaziare, misurarmi con ottiche diverse.

Come ti sei messo a scrivere la parte del libro in cui il serial killer si racconta in prima persona? Cioè come è stata l’immedesimazione? Brrrr…
Sai che non ho avuto nessuna difficoltà, mi è venuto naturale? Ah ah ah! Forse è stato più difficoltoso scrivere le parti in terza che quelle in prima. Chissà, magari dovrei preoccuparmi, ma d’altra parte gli scrittori scrivono per risparmiare i soldi dell’analisi. Poi uno dei piaceri di scrivere gialli e noir è proprio questo, raccontare l’uomo nero, altrimenti uno scriverebbe delle altre cose. Noi siamo attirati da queste figure, più il cattivo è cattivo più ci piace. Se ci pensate uno dei personaggi più noti del mondo del thriller è Hannibal Lecter, uno che ti invitava a cena e la cena eri tu, eppure lo troviamo tutti pieno di appeal, affascina tutti.

Parlando di regole, io trovato che nel tuo Psychokiller le regole siano fondamentali, è un libro pieno di schemi: le regole che uno si dà per convincersi di stare meglio di quanto in realtà non stia, ci sono le regole seguite dal tuo psychokiller, che è psycho ma anche molto metodico in quello che fa… Ecco, che ruolo hanno le regole nella trama e che ruolo hanno invece nella tua vita di scrittore?
Un ruolo fondamentale. Le regole che ti imponi per scrivere, i tempi, i momenti. Io normalmente faccio una scaletta, scrivo la sinossi di ogni capitolo, penso a quanti colpi di scena ci devono essere in quel capitolo eccetera, è tutto dosato, come se si seguisse una formula. Perché il thriller secondo me è proprio questo, mentre il giallo ti lascia anche spaziare, puoi lasciarti un po’ più andare. Quando scrivo un thriller ci devono essere delle regole, la stessa lunghezza più o meno per ogni capitolo, una cadenza regolare. Così come fanno gli americani se ci pensate, prendete ad esempio Dan Brown, che vi piaccia o non vi piaccia, i suoi libri hanno tutti lo stesso numero di pagine, ogni capitolo ha lo stesso numero di pagine, alla fine del capitolo c’è il colpo di scena che ti obbliga a proseguire. Quindi ci sono una serie di regole da seguire, ma non sono limitanti, anzi sono una sfida, perché quando seguendo le regole riesci a fare qualcosa di originale è una gara che vinci. Invece per rispondere alla prima parte della domanda, sono partito da Diego Ruiz, un ex alcolista che ex non è, e che avrebbe dovuto seguire questi famosi dodici passi, queste regole. La sua vita doveva essere scandita da questo, ma lui è uno che le regole non le sopporta, né in questura (infatti litiga con tutti) né nella vita privata, quindi in realtà le regole ci sono per poterle infrangere e valgono anche nella costruzione dei personaggi. Anche la profiler conosce le regole, sa cosa si aspettano da lei, sa come dovrebbe agire eppure spesso le infrange.

Mi collego a quello che hai appena detto, che la profiler Gaia non rispetta le regole, però allo stesso tempo, quasi si punisce, si veste in maniera molto castigata, non da spazio alla sua femminilità. Come nasce questo personaggio che ha due anime contrapposte?
Nasce dal fatto che io ho visto tutte le stagioni di Criminal minds e volevo creare un personaggio come quelli, mi piaceva l’idea di avere un membro della UACV che fosse nel suo momento di massima espressione. Quando la incontriamo è ancora una signora nessuno, una che fa le perizie a Regina Coeli, però è anche una che è andata comunque a fare un corso a Langley e quant’altro e quando si presenta l’occasione della sua vita riesce a sfruttarla. Avevo proprio voglia di un personaggio di quel genere e ti dirò mi piacerebbe anche riprenderlo come personaggio, perché secondo me ha delle possibilità.

Quindi nella tua intenzione è lei la protagonista vera del romanzo…
Lei è assolutamente la protagonista, insieme a Ruiz e allo psychokiller, naturalmente.

È la prima volta che in tuo romanzo trovo della politica o comunque degli accenni alla politica, è un caso o una scelta?
In realtà avevo bisogno di creare un gruppo di poliziotti in cui ogni personaggio avesse un lato oscuro, e uno di questi odia (ma odia per davvero) gli extracomunitari. Era funzionale, l’ho fatto trasparire in maniera inequivocabile. Ma è anche un racconto dell’Italia contemporanea. Un romanzo ti dice anche chi siamo, in fin dei conti.

All’interno del libro ci sono fondamentalmente tre storie che si intrecciano, mi interessava capire se le storie che intrecci nascono tutte nello stesso momento o a mano a mano che vai avanti emerge un affluente del fiume principale?
Nasce tutto insieme, prima di iniziare a scrivere. Perché per essere efficace devi avere chiaro tutto, poi la storia la spezzetti per la narrazione. Nella scrittura di casuale non c’è niente, specialmente nei gialli. Tu metti lì quella che appare una casualità al lettore, ma in realtà hai previsto e pensato tutto nei minimi particolari.

Ad un certo punto racconti nel dettaglio cosa c’è nella valigetta di Ruiz. Però, visto che hai detto di esserti sentito molto a tuo agio nella scrittura in prima persona, quindi anche dello psychokiller, nella tua ipotetica valigetta cosa c’è?
Mah, io mi sono sentito a mio agio perché per me la prima persona è il massimo, è scrivere in presa diretta, la valigetta è un omaggio a un film che non cito perché sarebbe un clamoroso spoiler. Nella mia credo che ci sarebbe solo un passaporto e forse – essendo io un nerd – un computer per poter scrivere. Con il passaporto, la carta di credito e un computer io sono a posto, non ho bisogno d’altro.

Il titolo invece come lo hai scelto? Hai pensato alla canzone dei Talking Heads?
In realtà cercavo un titolo che anche tradotto restasse uguale, in tutte le lingue. Con Radeschi nelle traduzioni non c’è una parola del titolo che corrisponda, con Addicted (il precedente romanzo) è andata così, è rimasto uguale in tutte le lingue e ho gradito molto la cosa. Psychokiller dunque era perfetto, poi chiaro che il collegamento con la canzone è stato istantaneo, ma la scelta era appunto per una questione di traduzione.

Ti senti cambiato come scrittore nel corso di questi anni?
Assolutamente sì, anche se adesso che hanno ripubblicato il mio esordio datato 2006 non ho cambiato quasi nulla. Ci sono autori che ad ogni ristampa cambiano qualcosa, ma in realtà io credo che tu una storia la scrivi in quel modo perché in quel momento sei così, riscriverla in un altro momento sarebbe un’altra cosa perché tu sei diverso. Diciamo che adesso ho molto più mestiere, per esempio Blu tango l’ho cominciato scrivendo di notte un po’ così e poi alla fine non mi tornava più niente. Ecco dove serve il mestiere, nei gialli tutto deve tornare, alla fine. Poi libro dopo libro impari sempre meglio come presentare i personaggi, come impostare i dialoghi, che è una delle cose che amo di più. Poi cambia la tua cultura, hai letto più libri hai visto più film, le serie americane che secondo me sono quasi la nuova letteratura, e ti rendi conto di come puoi migliorare costantemente, perché quando ti senti arrivato… Boh.

Da cosa nasce la tua ben nota passionaccia per Charles Bukowski?
Da una folgorazione nata ai tempi del liceo quando mi capitò fra le mani il romanzo Post Office. Da allora è stata passione pura al punto che la mia decisione di diventare scrittore la devo probabilmente al vecchio Buk: Zio Buk per me ha rappresentato lo scrittore per antonomasia. La mia passione per il Vecchio, come lo chiamiamo noi adepti, è stata suggellata editorialmente nel 1997 quando pubblicai il Millelire di aforismi Seppellitemi vicino all’ippodromo così che possa sentire l’ebbrezza della volata finale (Stampa Alternativa). Quel libro è nato per puro caso: all’epoca, leggendo i libri di Bukowski, mi ero messo a sottolineare le frasi che mi piacevano di più. Un giorno le ho trascritte, imbustate e spedite all’editore. È andata di lusso: un paio di mesi più tardi la raccolta di quelle frasi sottolineate è diventata il mio primo libro! Da allora ho continuato a coltivare la mia passione per lo scrittore fino a quando, nel 2004, grazie ad un’interlocutrice d’eccezione come Fernanda Pivano, gli ho dedicato la biografia Scrivo racconti poi ci metto il sesso per vendere (Stampa Alternativa) che prestava una particolare attenzione al “fenomeno” Bukowski in Italia. Quel libro posso dire che mi ha portato molta fortuna: è diventato un tour e mi ha fatto molto conoscere dal pubblico! Scrivere questo nuovo romanzo, che possiamo dire concluda la mia personalissima trilogia, è stata la logica conclusione di un percorso, anche se non premeditato. In quest’ultimo tassello intitolato Il mio nome è Bukowskiho voluto raccontare, sotto forma di romanzo, un particolare Bukowski: il mio.

Ti piacerebbe che ti succedesse quello che succede al protagonista del tuo romanzo Il mio nome è Bukowski, che si sveglia dal coma credendo di essere Bukowski (o almeno sostenendolo)? A meno che tu non l’abbia già fatto, eh...
Infatti: chi ti dice che non sia una storia autobiografica? Scherzi a parte l’idea di vivere in maniera “bukowskiana” sotto un certo aspetto mi ha sempre attratto, e devo dire è stata un po’ anche la molla che mi ha spinto a leggere i suoi libri... Fortunatamente fino ad ora ho desistito: non c’ho il fisico...

Sei il fondatore di una delle più interessanti riviste sul web, Milano nera. Vuoi parlarci un po’ di questa esperienza?
Internet è uno strumento formidabile di comunicazione e d’informazione che per fortuna è ancora libero; rappresenta la via alternativa rispetto alle televisioni e ai giornali perché può attrarre ed informare a costo praticamente nullo. Il blog che gestisco, insieme ad altri scrittori e critici letterari, MilanoNera (http://www.milanonera.com), il cui sottotitolo è “Il lato oscuro della scrittura”, si propone di parlare di libri gialli e noir appunto in questa ottica: non badiamo troppo al nome altisonante della casa editrice, ma alla qualità del libro. Negli altri media, come ben sai, questo rapporto è invertito per ragioni di mercato. Pubblichiamo soprattutto recensioni perché secondo noi la gente che ama leggere, cerca sempre buoni consigli di lettura. Questo è il nostro intento principale: leggere, scrivere una recensione, dare un voto. Perché i libri costano. E perché vale la pena leggere solo buoni libri. Libri non necessariamente appena pubblicati ma che ci piacciono o ci sono piaciuti. Chiaramente non cerchiamo solo tra le novità (dove sta scritto che i libri nuovi sono più belli?) ma anche tra quelli belli del passato sforzandoci di sfatare la terribile legge editoriale secondo la quale dopo tre mesi un libro è morto e sepolto. Non è così. Un bel libro rimane per sempre tale.

Hai fondato e dirigi un festival dedicato al giallo e al noir: il Nebbia Gialla Noir festival a Suzzara (Mantova). Vuoi parlarci di questa esperienza?
L’idea è nata con l’obbiettivo di conciliare la passione per la letteratura di genere (il giallo, il noir, la produzione letteraria del mistero in generale che in questi anni gode di una straordinaria attenzione) con la Bassa, la mia terra anche se vivo da anni a Milano. La terra di Guareschi e Zavattini, del Po, delle sue tradizioni, della sua gastronomia e delle sue caratteristiche ambientali come la nebbia che appunto dà il nome alla rassegna NebbiaGialla (http://www.nebbiagialla.it). Lo spirito della manifestazione è di portare la letteratura in provincia: il primo weekend di febbraio vogliamo che diventi per tutti gli appassionati e non, un’occasione per incontrare molti fra gli scrittori più interessanti del panorama noir italiano. La seconda edizione di NebbiaGialla è stata un vero successo. Una scommessa vinta grazie alla presenza di tanti autori importanti come Massimo Carlotto, Loriano Macchiavelli, Gianni Mura e molti altri. Il mio sogno di portare il giallo in provincia, gli autori fra la gente, in un borgo affacciato sul Po di appena ventimila abitanti si è realizzato: trenta autori di quel calibro, tutti insieme, non è una cosa che capita di vedere tutti i giorni fra le nebbie della Bassa... Ogni evento è stato caratterizzato da grande partecipazione di pubblico. La cosa più straordinaria era vedere tante persone andarsene con tre o quattro romanzi sotto braccio dopo esserseli fatti firmare dai loro autori preferiti.

I LIBRI DI PAOLO ROVERSI