
Incontrare un vecchio amico dopo tanto tempo fa sempre uno strano effetto. L'appuntamento con Pascal è fissato al caffè Giubbe Rosse, nel pieno centro di Firenze, la città dove ci siamo incontrati e conosciuti per la prima volta una decina di anni fa. Eravamo compagni di Università io e Pascal, facoltà di Scienze Naturali. A quei tempi io ero quello bravo in Matematica, lui in tutto il resto. E dopo un po' di anni eccoci qua: io inviato per conto di Mangialibri a intervistare e conoscere nuovi autori, lui giovane promessa del panorama letterario italiano. Chi l'avrebbe mai detto?
Il tuo Il giardino sopra il mondo è un romanzo che ci fa rivivere il ventennio fascista attraverso gli occhi di quattro ragazzini. Perché un giovane scrittore ha scelto di ambientare il romanzo nell'Italia di settanta-ottant'anni fa?
Quando la storia ha iniziato a ronzarmi in testa, avevo queste poche immagini e idee: un piccolo giardino dove alcuni bambini possono creare in piena libertà il loro mondo, un paese dove tutto va avanti allo stesso modo, in una piatta monotonia, e la Storia che a un certo punto entra con tutta la sua energia e violenza nella vita dei protagonisti e del paese “addormentato”. Volevo scrivere una storia, insomma, che contemporaneamente fosse fuori dal tempo e dentro il tempo. Da qui la scelta di quel periodo di oltre vent’anni che si conclude con la seconda guerra mondiale. Guerra che è stata finora, almeno finora, il massimo esempio di come la Storia nell’epoca moderna riguardi tutti, nessuno escluso. E la dimostrazione di quanto sia inutile nascondersi dentro casa, nel nostro piccolo: prima o poi Lei ci bussa alla porta, se è gentile, o ce la butta giù in un solo colpo, come più spesso avviene. Meglio quindi affrontarla, la Storia. Purtroppo la mia generazione sembra essersi chiusa in casa: e non per paura, ma per indifferenza e apatia. Anche se quello che sta succedendo nel mondo in questi anni e soprattutto in questo 2008 ricorda molto quanto avvenne nel mondo dopo i “ruggenti” anni Venti…
Cosa simboleggia il giardino del titolo?
È il giardino che i quattro bambini costruiscono fuori dalle mura del piccolo e anonimo paese in cui vivono: è allo stesso tempo il luogo della protezione dal mondo degli adulti e il luogo in cui entrano in contatto diretto, e cioè senza gli attriti e la pesantezza del mondo “esterno”, con la vita. Il giardino è il luogo in cui i quattro bambini possono ricreare la realtà, attraverso i giochi, le storie inventate, le scoperte. Un atto di continua creazione che è segno di protagonismo, di volontà di essere presenti e attivi, e certo non segno di fuga o isolamento. Altrimenti il giardino sarebbe stato “fuori dal mondo”: in questo caso è senza dubbio “sopra il mondo”.
Il tema dell'infanzia sembra esserti particolarmente caro: perché?
Effettivamente sia nel romanzo che nell’ultima raccolta di racconti Io sono qui al centro delle storie quasi sempre ci sono dei bambini o dei ragazzi. Con il senno di poi, sono portato a credere che ciò sia legato alle motivazioni che più mi spingono a scrivere. Crescere e diventare adulti spesso diventa perdita di qualcosa, invece di rappresentare un passo in avanti, un completamento della persona: col passare del tempo la vita tende a indurirci, a renderci cinici, a farci abituare alle cose del mondo, e così facilmente (spesso inconsapevolmente) perdiamo il senso della novità, della scoperta, della meraviglia. E per combattere questa perdita, per provare ancora meraviglia di fronte alle cose che ci circondano, almeno secondo me l’uomo adulto ha due grandi possibilità: lo sguardo dell’arte (e quindi della letteratura) e lo sguardo del bambino.
Come si diventa scrittori così giovani? E quali sono i consigli che daresti a un giovane aspirante scrittore?
Per quanto mi riguarda la molla che più mi ha spinto e mi spinge a scrivere è appunto la curiosità per il mondo, la voglia di comprenderlo, di esserne parte attiva. La consapevolezza che il mondo è fuori di me e non dentro di me. Averlo capito piuttosto presto è stato un grande vantaggio. Io sono convinto che l’adolescenza porti degli strascichi negativi su chi vuole iniziare a scrivere sul serio, tra i venti e i trent’anni, e blocchi veramente molte penne: ho notato che quasi tutti quelli che mi dicono che non riescono a scrivere mi raccontano che vogliono scrivere qualcosa di sé, e solo di sé (come appunto ogni adolescente tende a fare). Ma appena iniziano a parlare del mondo, a inventare delle storie dove i protagonisti sono “altri”, tutto cambia. C’è lo sblocco. Almeno, a me è successo così. Quindi, questo è il primo consiglio che darei a un giovane aspirante scrittore: invece di fissarsi su se stessi, guardare il mondo che è al di fuori dei nostri occhi, e guardarlo – questo sì – attraverso il proprio originale punto di vista. E poi, come dice Manet, per dipingere (scrivere) occorrono: “indifferenza a tutto tranne che alla tela; la capacità di lavorare come una locomotiva; una volontà di ferro”.
I tuoi romanzi e racconti si caratterizzano per la grande importanza data ai sentimenti. E' un vero e proprio marchio di fabbrica o magari tra qualche anno ti darai al pulp?
Se scrivo è anche perché non accetto la realtà in cui vivo: una realtà in cui i valori sembrano annullarsi, in cui sembrano scomparse le certezze e la necessità stessa di avere delle certezze. È una realtà, la nostra, che ci disgrega, che ci rende uomini a pezzettini, uomini spesso incapaci di stare al mondo. Le mie storie e i personaggi che vivono quelle storie nascono appunto dal conflitto tra ciò che desidero e questa realtà. Inevitabilmente i sentimenti dei personaggi, la loro forza o debolezza morale, i loro sogni e le loro illusioni emergono in primo piano, rispetto a spettacolari scene d’azione o colpi ad effetto. Non so se è un mio “marchio di fabbrica”, ma certamente questa è la strada che sto percorrendo con convinzione e onestà in questi primi anni di scrittura.
A quali scrittori guardi con maggiore attenzione?
Essendo ancora nei primi anni di “apprendistato letterario” prediligo i grandi scrittori cosiddetti classici, che tanto hanno da insegnare, e poi quelli che ritengo essere dei grandi “luminari della fantasia”: Italo Calvino e Gianni Rodari, ad esempio, o il Giacomo Leopardi delle Operette morali, tanto per rimanere sul versante italiano. In generale, sento a me più vicino quella letteratura che non si accontenta di riflettere la realtà come uno specchio, ma la vuole trasfigurare, ribaltare, ricreare, utilizzando quel prisma meraviglioso che è l’immaginazione. Purtroppo troppa narrativa di oggi mi sembra semplice “scannerizzazione” della realtà: e visto che la realtà così com’è a me non piace…
Hai in serbo nuovi romanzi per il futuro? Puoi darci qualche anticipazione?
Certo, ho diversi lavori in testa: qualche giorno fa ho dovuto fare un elenco su un foglio, altrimenti ne avrei perso qualcuno. A parte gli scherzi, sto lavorando a un romanzo a cui tengo tantissimo in cui il protagonista è una mente (quasi umana), a una raccolta di favole per bambini sulla scienza, e spero di iniziare a lavorare presto a un paio di sceneggiature per teatro. Poi ci sono altre cinque o sei idee a cui cerco di non dare troppa retta, per non ingolfare il cervello. Insomma, almeno per i prossimi due anni ho da fare!
I libri di Pascal Abatiello: