
Scrittrice, giornalista, sceneggiatrice e autrice radiofonica, Patrizia Carrano è una voce garbata ed elegante. Si presta volentieri a un’intervista in cui si racconta con estrema generosità, offrendo agli amici di Mangialibri parecchi spunti di riflessione. È un piacere parlare con lei della vita di una grande e indimenticabile stella del cinema italiano come Anna Magnani, di punti di vista, messaggi politici, nostalgia e conquiste femminili.
Una primadonna che è però anche il simbolo per eccellenza dell’antidiva. Una figura bellissima, ma lontana dai canoni classici di bellezza. Quando si pensa ad Anna Magnani la prima parola che viene in mente è “contraddizione.” E di contraddizioni nella tua biografia su di lei ne mostri parecchie. È così?
Certo. Non intendevo fare di Anna Magnani un santino, ma raccontarne le luci e le ombre, oltre che il suo ruolo, importantissimo, nella storia dello spettacolo italiano del Novecento. Per questo nella quarta di copertina di Tutto su Anna ho elencato molte delle sue contraddizioni. Proprio per sottolineare quanto lei fosse una donna ricca di chiaroscuri. Questo la rende molto attuale, anche se la sua è una figura archetipica, mitologica, eterna. Dunque antichissima ma modernissima. Un’altra, fertilissima, contraddizione.
A che punto, occupandosi della biografia di un personaggio così ricco e complesso, si decide di aver concluso e di essere pronta a consegnare alle stampe il testo? Non c’è il rischio di non aver raccontato tutto?
Tutto su Anna - che io considero il romanzo della vita della Magnani, anche se nulla è stato inventato, ha una lunga storia: ho cominciato a lavorarci nel 1979. Ed è stata una fortuna, perché ho potuto intervistare una trentina di personaggi che avevano avuto a che fare con Anna, e che ora sono tutti scomparsi, da Suso Cecchi d’Amico, grande sceneggiatrice e sua confidente, a Gigetto Pietravalle, che le stette accanto come affettuoso cavalier servente per tutta la vita, fino a Riccardo Billi che fece di lei una straordinaria imitazione a teatro. Inoltre ho passato settimane intere alla biblioteca teatrale del Burcardo, che ora è chiusa. Ho potuto così raccogliere confidenze, racconti, materiali d’archivio, che altrimenti sarebbero andati perduti. È uscito un mio libro su di lei nel 1982, in cui ringraziavo tutte queste persone. Ora, a tanti anni di distanza, ci ho rimesso le mani aggiungendo una conclusione che si intitola Cinquant’anni senza Anna dove, con un occhio fatalmente più distante, cerco di evidenziare il suo peso nella storia del cinema e del teatro. Ma la conclusione è una sola: la Magnani è unica e indimenticabile. Perfino quando sbaglia.
Da dove nasce, secondo te, l’enorme fascino di Anna Magnani, ancora vivo a cinquant’anni dalla sua morte?
Credo che Anna sia stata una donna capace di dar retta solo a se stessa. In questo senso una creatura ammaliante. Ma non sono sicura che questo fascino sia vivo e ricordato ancora oggi. Quando morì, nel 1973, nonostante l’omaggio che le tributò la folla all’uscita della chiesa di S. Maria della Minerva, applaudendo la sua bara con un gesto che prima di allora nessuno aveva mai compiuto e che ora è diventato abituale, nessun editore era interessato a un libro su di lei. Dovetti faticare a convincere la Rizzoli, che nella persona di un intelligentissimo editor che mi piace ricordare qui, Edmondo Aroldi, mi disse: “Facciamo questo libro. Ma che non sia per addetti ai lavori”. Non poteva farmi richiesta più gradita. Io volevo tentare di scolpire e delineare il ritratto di una donna, di un’artista, di una creatura battagliera e ribelle.
Nannarella e l’amore. Nannarella e l’amicizia: quale dei due sentimenti, secondo te, ha avuto un peso maggiore nella vita della Magnani?
Sono sentimenti che nella sua vita si sono fatalmente intrecciati. La Magnani aveva bisogno di sentirsi amata e accettata da tutti: dagli uomini, dagli amici, dal pubblico. Doveva colmare il pozzo nero del rifiuto, in cui era vissuta durante l’infanzia. Suo padre non l’aveva riconosciuta, sua madre era lontana. Lei stessa raccontava di aver fatto l’attrice per sentirsi amata.
Da dove arrivavano, a parer tuo, la profonda solitudine e la rabbia, spesso incontenibile, che erano elementi distintivi del carattere di Anna Magnani?
Come ho appena ricordato, dalla sua infanzia di figlia non accettata. Ha avuto accanto a sé le zie, che l’hanno custodita affettuosamente. Ha avuto vicino sua nonna, che le ha voluto un mondo di bene. Ma il rifiuto iniziale di suo padre e l’abbandono di sua madre l’hanno segnata. Probabilmente, senza quel prezzo precoce pagato alla sofferenza, la Magnani sarebbe stata un’attrice meno potente. Recitando, lei ha dato uno schiaffo alla vita, si è presa la sua rivincita. Ma le ferite, seppur diventate cicatrici, hanno continuato a farle male.
A conclusione della biografia racconti il tuo incontro con lei. Quali sensazioni ti suscita, a distanza di tanti anni, quel ricordo?
Le stesse che ho scritto: ero una ragazza di venticinque anni, da tempo lavoravo, mi mantenevo, mi occupavo di condizione femminile. Ma la Magnani aveva attorno a sé un’aura magnetica. Davanti a lei non si poteva che essere in soggezione.
Cosa ha lasciato la Magnani all’Italia? E cosa ha lasciato a te, che sei entrata nella sua vita e hai cercato di coglierne ogni sfumatura?
All’Italia ha lasciato un’eredità che il cinema di tutto il mondo considera indimenticabile: Frances McDormand, che ha vinto due Oscar come protagonista di tanto bel cinema, fra cui Tre manifesti a Hebbing, Missouri ha dichiarato che la Magnani è ineguagliabile. Penelope Cruz ha ripetuto spesso di considerarla perenne fonte di ispirazione. In quanto a me... spero di averla compresa.
Quando ci si dedica alla scrittura di una biografia, come si stabilisce il limite tra ciò che è il caso di raccontare e quello che invece è preferibile tacere, magari per non correre il rischio di invadere in maniera eccessiva l’intimità di un personaggio?
Quando intervistai Suso Cecchi d’Amico, fu lei a raccontarmi certe fragilità e certi amori sbagliati di Anna. E mi raccomandò: “Scrivi tutto quel che credi, ma fallo con grazia. Stando dalla sua parte”. È quel che ho cercato di fare e la stessa Suso si complimentò poi con me per come avevo trattato certi temi sentimentali in maniera delicata. Ecco, sono stata attenta al “come”. Ma ho raccontato tutto.
Qual è il film della Magnani che preferisci e quale quello che meglio la rappresenta?
Secondo me è Bellissima di Visconti. Un regista che la voleva per Ossessione, ma non se ne fece niente perché Anna era incinta. Certo, la corsa dietro la camionetta dei nazifascisti di Roma città aperta è l’icona stessa del neorealismo. Ma quello è un film più corale, mente in Bellissima lei è sdraiata sul titolo, come si dice in gergo teatrale.
C’è, nel panorama cinematografico italiano, un’attrice che possa essere definita erede della Magnani?
Direi proprio di no. Non ci sono più i presupposti per un’attrice che sia principesca ma plebea, teatrante raffinata ma personaggio dialettale. La Magnani è eterna, oggi potrebbe benissimo essere la caposala di un dissestato ospedale del Sud. Ma non vedo nessuna in grado di raccogliere quella eredità. Non c’è più quel cinema, né ci sono più quei registi e quel clima.
Qual è l’aspetto che preferisci nella scrittura di una biografia e quale quello che ritieni più difficile?
Il grande Borges, scrittore premiato con il Nobel, ha scritto: “Che un individuo voglia risvegliare in un altro ricordi che appartennero esclusivamente a un terzo, è un evidente paradosso. Realizzare questo paradosso è l’innocente volontà di ogni biografia”. Ricordo questa frase, perché io ho scritto un’unica biografia e non ne scriverò altre, anche se ho dato alle stampe un piccolo libro, intitolato Un ossimoro in lambretta edito da una casa editrice molto raffinata, la ItaloSvevo, in cui rievoco la figura di Giorgio Manganelli e il suo complicato rapporto con Fellini. Tanti anni fa mi hanno chiesto di scrivere la biografia di Rossellini, ma ho declinato l’invito.
Da dove nasce la scelta doppiamente coraggiosa di portare, nel tuo romanzo La bambina che mangiava i comunisti, da un lato l’attenzione del lettore verso un discorso politico mai del tutto concluso e, dall’altro, di filtrarlo attraverso gli occhi di una bambina? O meglio, si è trattato di una scelta o di un’esigenza?
Ho sempre amato l’insegnamento che viene dalle favole. E in una celebre fiaba di Hans Christian Andersen è proprio un bambino che ha il coraggio di dire “il re è nudo” mentre tutti i dignitari acclamano il suo bel vestito… che non c’è. Io non sono una storica o una saggista. Sono una romanziera. E dopo tutto quel che era stato scritto sul partito comunista nel 2020, in occasione del centenario della fondazione, avevo voglia di un altro punto di vista. Quello acuminato ma non barocco di una bambina.
È stato difficile dar voce ai pensieri di una ragazzina che, per quanto acuta e sveglia, ha una visione della realtà che la circonda decisamente più innocente rispetto a quella di un adulto?
Direi che è stato il compito più impegnativo. Da bambina io sono andata al seguito di mia madre nelle sezioni del Partito e a Campo Parioli, dove abitavano gli sfollati della guerra. Ma di quelle esperienze conservavo soltanto il profumo. E dunque ho dovuto documentarmi, mescolando poi personaggi reali e immaginari. Ma questo è un lavoro preparatorio che faccio per ogni libro. Dunque. mi è familiare. Diverso è stato mettermi nella mente e nel cuore di una bambina, che non volevo fosse saputella, o troppo cresciuta. Ho dovuto recuperare un’infantile verginità di pensiero. È stato molto impegnativo, ma anche molto appagante.
Nella decisione di scrivere questo tipo di romanzo ha pesato di più il messaggio politico che intendevi trasmettere o la complessa natura umana dei personaggi che volevi raccontare?
L’idea della storia è nata da una parziale esperienza autobiografica (io ho la stessa età di Elisabetta, e mi è capitato di andare negli stessi luoghi della mia protagonista). Ma anche da un sentimento di nostalgia per un tempo, irrecuperabile, in cui le discussioni politiche erano il pane quotidiano anche delle classi più semplici. Oggi siano tutti in balia della televisione. Ricordo sempre che la parola “compagno” significa “spezzare il pane con”. Oggi spesso mangiamo soli anche quando siamo in compagnia. In quanto alla natura umana dei miei protagonisti, si è costruita man mano. Di solito quando inizio una storia ho idea di dove andare a parare. Ma il resto cresce come un impasto lievitato, mentre procedo.
La mamma di Elisabetta, la piccola protagonista della storia, è più una vera comunista o più una ribelle?
Una ribelle. Anche se i suoi ideali sono in parte quelli dell’ortodossia del Pci. Ma è una donna, è libera, ha una forte vocazione all’indipendenza… Prezzi molto alti da pagare allora e anche ora. Da qui nasce parte della sua inquietudine e infelicità. Che Elisabetta coglie perfettamente.
Nei tuoi lavori tendi ad occuparti delle donne e a farne le protagoniste dei tuoi scritti. Le donne, oggi, sono davvero libere o hanno ancora parecchia strada da percorrere?
Hanno ancora molti obiettivi da raggiungere, in Italia e in ogni parte del mondo. Per restare nel nostro Paese: le donne studiano di più ma vengono pagate meno, sono spesso ferme a lavori di poca responsabilità, vengono giudicate sempre e comunque con una certa malevolenza: se fanno figli, se non li fanno…
Perché Elisabetta riesce prima di altri - e prima di sua madre - a vedere le crepe di quel mondo, che lei vorrebbe vedere completamente rosso, ma che mostra in realtà parecchie incongruenze?
Perché ha la logica ferrea dei bambini, nessuna gabbia ideologica, e per questo può accorgersi che i conti non tornano. Non lo capisce da un punto di vista politico, culturale, o ideologico. Lo comprende con la migliore arma dell’infanzia: l’acutezza del sentire, la capacità di cogliere i sentimenti di chi le sta attorno.
La vita che descrivi è molto ricca e fervida: racconti di uomini e donne che, dopo otto ore di lavoro, uscivano dalle fabbriche e si incontravano per parlare di politica. Pensi che oggi questo senso di comunione si sia perso? In che modo?
Si è irrimediabilmente perduto. Non voglio rimpiangere il buon tempo antico, che aveva i suoi problemi e le sue ottusità. Ma penso che quando si invoca l’inderogabile necessità di incontrarsi e di parlare delle proprie esperienze di vita, sottraendosi ai video della tv o del cellulare, si colga nel vero.
Hai scritto libri su disparati temi: racconti storici, storie centrate sulla condizione femminile, romanzi sui cavalli. Cosa hanno in comune i tuoi lavori?
Direi la passione: il primo dei miei romanzi storici è dedicato a una donna che per prima è riuscita a “dottorarsi”, come si diceva alla metà del Seicento. Scoprii una targa a Venezia, città dove ho vissuto da bambina a cui sono spesso tornata, e volli sapere di più su questa Elena Lucrezia Cornaro Piscopia. La questione femminile è stata al centro della mia esperienza di giornalista e di narratrice. In questo senso mi piace ricordare la mia biografia su Anna Magnani, che uscirà di nuovo fra qualche mese, in occasione del cinquantenario della sua scomparsa. In quanto ai libri sui cavalli… sono stata un’appassionata amazzone amatoriale (senza alcuna attività agonistica) e ho posseduto tre cavalli, comperati nel tempo e poi invecchiati con me. L’etologo Danilo Mainardi scrisse che io ho imparato a pensare come un cavallo. Un complimento, una laurea ad honorem. Per provare a raccontare bisogna prima conoscere, e anche amare.
Chi sono stati i maestri che hanno illuminato il tuo percorso di scrittura, che ti ha portata a girovagare fra molti temi e differenti suggestioni?
Da ragazza mi sono tuffata nel romanzo francese: Madame Bovary, Eugenie Grandet sono libri che ho amato, letto e riletto. Senza contare Dumas. E poi, certo, anche i russi. Quando sono stata in visita alla casa di Tolstoj, ho retto con fatica all’emozione.
Che tipo di lettrice sei? Cosa ami leggere e cosa - se c’è - non sopporti? Quanto tempo dedichi alla lettura?
Sono una lettrice molto affezionata alla qualità della scrittura. Una buona trama gialla - visto che oggi si deve per forza scrivere dei gialli - non mi basta, se c’è una lingua sciatta o banale. Contemporaneamente sono ancora affezionata alla scrittura tradizionale. Indico due scrittrici italiane dello scorso millennio, che sono state per me indiscusse maestre: Natalia Ginzburg ed Elsa Morante. Hanno scritto dei romanzi che ad ogni rilettura rivelano altre cose, altri scorci, altre profondità. Dei classici che, come ha scritto Italo Calvino, non smettono mai parlarci.
Hai in progetto nuove biografie? O a cos’altro stai lavorando al momento?
Il mio primo libro è del 1977. E ancora adesso continuo a scrivere. Ora ho in mente un romanzo, che dovrebbe uscire con la Vallecchi l’anno prossimo. Il titolo è politicamente piuttosto scorretto: La figlia della serva. E racconta cinquant’anni di una famiglia, vista dagli occhi dei domestici che ha avuto: donne a tutto servizio, colf, badanti... Il mio romanzo editato l’anno scorso da questa casa editrice, intitolato La bambina che mangiava i comunisti, ha fatto sei edizioni. Squadra che vince non si cambia. E poi la Vallecchi è come la Magnani: antica (non dimentichiamo che fece debuttare Eugenio Montale) ma modernissima.