
La prima impressione che ti fai quando vedi per la prima volta Matvejević è quella del gentiluomo. Posato, umano, delicato. Il suo dotto e appassionato saggio sul pane ha impiegato dieci anni per venire alla luce, chiaro segno del prodigio di quello che ci ha raccontato e che dall'inizio dei tempi si rinnova giorno dopo giorno. E allora lasci porre le domande agli altri e decidi di ascoltarlo in religioso silenzio.
In questo momento difficile di crisi economica mondiale un libro sul pane può assumere un valore simbolico molto forte, visto che le grandi rivoluzioni sono spesso animate dalla ricerca di pane. Ci hai pensato quando hai scritto il tuo libro Pane Nostro?
Alcuni ricercatori hanno fatto una statistica: alla fine di questo secolo saremo dieci milardi su questo pianeta di cui più di due miliardi saranno senza pane. Quindi la richiesta di pane è stata, è, e sarà senza dubbio legata alla lotta per la sopravvivenza. Questo del resto è già stato evocato nel corso dei secoli da critici e scrittori: mi vengono in mente i personaggi di Manzoni che camminano sulle strade di Milano gridando "pane, pane". Io ho vissuto in prima persona certe situazioni, soprattutto in Bosnia-Erzegovina. Ho visto degli amici, dei compagni, che subivano queste difficoltà e credo che tutto questo si trovi in qualche modo nel mio libro. In Tunisia la rivolta è stata definita "Rivolta del pane". Sono uscite più di quaranta recensioni sul mio libro, molte delle quali, specialmente nel primo periodo, associavano il mio testo a questa primavera araba, nonostante io non potessi sapere, quando l'ho scritto, quello che sarebbe successo. Tuttavia le grandi rivoluzioni si fanno anche utlizzando altri mezzi: il nostro secolo può far girare i messaggi attraverso il digitale e senza dubbio questo si inserisce all'esigenza di pane.
Quale può essere il senso della tua ricerca?
Una cosa che mi ha sorpreso nei miei studi (ho impiegato dieci anni per scrivere questo libro) è stato scoprire un testo antico di Anassagora di Clazomene in cui si dice che il pane è già costitutivo di parti presenti nel nostro corpo. Tutto quello che è in noi è anche del grano. Questo spiegherebbe anche come alcune persone abbiano potuto vivere dieci, quindici, venti anni di prigione grazie a pane e acqua. Quando il grano è stato scoperto, colui che ha visto la prima spiga ha avuto un'idea di simmetria, di giustizia. Io ho cercato di fare una politica del pane non soltanto una storia o un racconto.
Quando e dove è germogliata la prima spiga di grano?
Il pane è nato prima della scrittura. Una "tragica" ricerca è stata fatta da un professore russo che ha individuato questa nascita nell'attuale Etiopia, arrivando a queste conclusioni senza poter viaggiare, ma solo facendo alcune comparazioni del contenuto delle spighe. Questo scienziato è stato poi ucciso in un Gulag perchè non aveva scoperto che il grano era cresciuto prima vicino alla casa di Stalin. Il pane ha anche permesso di distinguere nell'antichità i barbari dai civilizzati, i barbari mangiavano poltiglia preparata con ingredienti selvatici, i civilizzati sapevano preparare il pane. Per cui la prima frattura tra la preistoria e l'antichità si può collocare col pane, grazie al pane.
Ho ritenuto molto interessante la correlazione tra la ricerca di pane ed il migrare, ritieni anche tu siano due aspetti molto correllati?
È un tema che sento molto. Ho sempre cercato di essere vicino ai migranti, non soltanto quelli della ex Yugoslavia. Ho anche vissuto diversi giorni con i zingari. Ma su questo vorrei fare io una domanda agli amici italiani: come spiegate che la lingua italiana possiede dieci volte più termini per definire "migrante" rispetto agli altri paesi d' Europa? Migranti, emigrati, immigrati, espiati, stranieri, profughi, rifugiati, fuggiaschi, sfollati, deportati, esulati, respinti, espatriati, espulsi, apolidi; senza contare poi le varie definizioni, regolare, irregolare, con passaporto o senza. Il mio traduttore tedesco mi diceva che loro di termini nel hanno tre. Sarebbe interessante spiegare questa vostra straordinaria varietà di termini.
Al di là degli aspetti tecnici, antropologici, storici, religiosi, artistici, filosofici e addirittura astronomici che hai raccontato così bene nel tuo libro cos'altro ti ha spinto a scrivere Pane Nostro?
Due ricordi personali. Nel '41 mio padre fu deportato dai nazisti in un campo di concentramento. Dimagrì 30 chili fino a quando un prete protestante non ha fermato un gruppo che stava lavorando e ha dato loro dei pezzi di pane e un po' di vino. Poi la guerra finì e i soldati tedeschi si dispersero. Mio padre tornò irriconoscibile, con quaranta chili di meno. Un giorno mi disse: "porta la metà di questo pane a quei tedeschi che stanno lavorando qui". Mi diceva anche "nascondilo, sennò pensano che siamo collaboratori". Portai il pane a questo tedesco alto, con i capelli biondi e gli occhi blu, e lui incominciò a piangere. L'altro ricordo è legato al racconto di una mia cugina che mi ha riferito di quando mio nonno e mio zio furono uccisi al muro e le loro ultime parole furono "pane, pane", come i personaggi di Manzoni sulle strade di Milano.
I libri di Pedrag Matvejević