
Peppe Fiore, classe 1981, genotipo napoletano e residenza romana, è approdato a Minimum Fax a coronamento di una gavetta densa di segnali importanti e in crescita costante. Segno che Mangialibri ci aveva visto lungo quando nel 2005 lo salutava come una delle voci più promettenti della nuova letteratura italiana. Ora è acclamato dalla stampa e dal pubblico per il suo La futura classe dirigente, un romanzo atipico e autobiografico a fotografare la realtà in cui siamo immersi, quasi fosse un liquido amniotico che ci nutre, tenendoci a galla, sempre che si sia capaci di nuotare. Ed è arrivato il momento di scambiare con Peppe due-tremila parole, dal senso della vita al pecorino sulla pasta all'uovo.
Il risvolto tragicomico e disperato della vita è il filo conduttore di tutte le tue opere, a partire dai libri pubblicati da Coniglio e Gaffi sino alla mastondontica opera (perchè in fondo lo è) ora in libreria per Minimum Fax. Perchè?
Non so. Probabilmente perché gli esseri umani sono creature sostanzialmente ridicole, siamo l’unica specie del regno animale che vive costantemente al di sopra delle proprie possibilità. Campiamo a forza di bisogni indotti e desideri frustrati: questo tira e molla perenne di vorrei ma non posso è assurdo eppure per noi è impossibile vivere senza. Così diventiamo profondamente patetici e profondamente tragici al tempo stesso: è filosofia spicciola, ma per me è divertente e perciò vale la pena scriverne.
Gli aspetti più esilaranti dei tuoi scritti e le tue qualità più spiccate sono la caratterizzazione dei personaggi e lo stile narrativo, il linguaggio utilizzato, un mix di slang e parole ricercate. Come hai sviluppato questa capacità? O devo pensare si tratti di talento?
Non usiamo la parola talento, per carità. Nel mio caso, tutt’al più, si tratta di una specie di ostinazione asinina che sono portato a collegare oscuramente con i miei genitori e il loro fallimentare tentativo di educazione cattolica. Ho scritto una marea di roba prima di arrivare al romanzo: perlopiù si tratta di cacca, ma scrivere tanto mi è servito almeno a capire che cosa mi interessa veramente. Comunque sì, per me comincia tutto dal personaggio: probabilmente sono portato a privilegiare quello rispetto alla trama. Se i personaggi sono stereotipi, monodimensionali, se non sono – soprattutto – intimamente contraddittori, anche la storia più pazzesca del mondo viene fuori senza midollo. Poi, è chiaro, i caratteri una volta concepiti vanno orchestrati e messi in relazione tra loro: se uno è bravo riesce a creare delle storie che fanno muovere delle risonanze già presenti nel dna dei personaggi. E, se uno è bravo, credo che sa la possa cavare anche in meno di quattrocento pagine… Sullo stile, uno dei miei modelli è il cantautore di Mercatello (SA) Gianfranco Marziano: la sua lezione è che la sostanza della poesia è una cosa semplice, essenziale, molto legata all’esperienza bruta. Ma, allo stesso tempo, lo stile – la forma – è fondamentale. Bisogna incastrare le due cose. Si può essere lirici anche parlando delle bollette scadute.
Il tuo interesse, legame - sembrerebbe attaccamento personale - ai temi dell'amore, della famiglia, del precariato, del diventare grandi in una realtà che non aiuta per niente nello sviluppo consapevole della personalità è tangibile. Vuoi parlarne?
La famiglia è una delle cose che mi interessano di più. Un po’ perché di fatto sono un figlio unico mammone, un po’ perché effettivamente la famiglia è un incredibile laboratorio di nevrosi. Dentro la famiglia tutto ciò che è sentimentale – gli affetti e i conflitti – risulta amplificato a dismisura: e molto spesso le strutture mentali che si sviluppi in famiglia sono le stesse che applichi da adulto – più o meno deformate – con le tue fidanzate, i tuoi amici, i tuoi datori di lavoro. Michele Botta, il protagonista del romanzo, si trova in una fase della sua vita in cui questo passaggio di testimone (famiglia-mondo adulto) per qualche ragione non funziona come dovrebbe. Anzi, non funziona per niente. È come se non riuscisse ad avvitare l’obiettivo sulla macchina fotografica nuova di pacca. Per questa ragione si accorge che ci dev’essere qualcosa di sbagliato a monte: nel suo passato, nella sua educazione, o, più probabilmente, nel mondo adulto in sé.
Gaffi ha permesso che Cagnanza e Padronanza venisse rilasciato in copyleft. Che cosa ne pensi? Credi che sia un sistema utile per la diffusione dei contenuti o - al contrario - pensi che questo atrofizzi il mercato editoriale, disinvogliando l'acquisto delle copie fisiche?
Il copyleft, per l’editoria cartacea, è una benedizione, e non solo per un fatto ideologico, anche per un discorso meramente commerciale. Cioè. Nel mio caso parliamo di narrativa italiana non di genere: quindi una roba, diciamo così, per un pubblico di appassionati. Ecco, nessun appassionato si accollerebbe di leggere un romanzo sullo schermo. Viceversa, avere la possibilità di “testare il prodotto” online, è un incentivo all’acquisto. E fa circolare maggiormente l’opera. Anzi, a me è capitato di leggere per intero cose sul web, quando erano particolarmente appassionanti. Ecco, in quei casi le ho successivamente acquistate anche in cartaceo: sia perché ci tenevo ad avere il libro sia per ricompensare idealmente l’autore.
La futura classe dirigente è un'opera di un certo spessore, si deve leggere con attenzione, il lettore si sente in dovere di fermarsi a riflettere - capitolo dopo capitolo - in parte per metabolizzare gli eventi e la scrittura, in parte perchè è impossibile non vedere qualcosa di ognuno di noi in Michele Botta, il protagonista, e in tutte le anime che gli ruotano attorno. Come hai proceduto per la stesura? Avevi già in mente il punto di approdo?
Grazie per il “certo spessore”!! Il libro ha avuto una gestazione abbastanza incasinata, si è trasformato in un romanzo a poco a poco. Diciamo che all’inizio avevo abbastanza chiaro il tema (questa sorta di integrazione mancata con il mondo adulto), i margini del personaggio (un egotico paranoico schiacciato da un gigantesco complesso d’Epido) e il contesto televisivo. La prima stesura era un delirio, praticamente un flusso ininterrotto delle pippe mentali di Michele. Ci ho pensato su un mese, a bocce ferme come si dice, e ci ho messo dentro il pornografo, Ennio, e quella specie di accelerazione folle della trama che succede nelle ultime 150 pagine e ruota tutta attorno alla figura mitologica di zio Lucio.
Una delle critiche che ti si potrebbero muovere è che avresti potuto anche accorciare il romanzo, compattandolo, eliminando alcune parti non propedeutiche allo sviluppo della storia. Invece sembra tu abbia voluto dire tutto, sino all'ultima sillaba. Non avevi paura che il lettore ti trovasse troppo pesante o abbandonasse la lettura prima della fine?
In realtà mi sono reso conto che erano quattrocento pagine solo al momento – appunto – dell’impaginazione. Non sono mai andato troppo d’accordo con la funzione Conteggio Parole di Word. Sì, probabilmente avrei potuto accorciarlo di 50, forse anche di 100 pagine: ma questo è un libro che se non ti piace, smette di piacerti già a pagina 30… quindi tanto valeva dargli tutto il respiro che sentivo di dargli dall’inizio. La verità è che io, e poi tutte le persone che l’avevano letto fino a quel momento – amici, editor ecc. – quando abbiamo visto le dimensioni, siamo cascati dal pero. Tutti mi hanno detto che leggendo gli era sembrato molto più corto. Quindi ho affrontato la cosa serenamente e, in fondo, sono contento di aver fatto così.
Il precariato di Michele è associato a una sfiducia collettiva nel mondo del lavoro, nella politica, nelle relazioni amorose, nella comprensione famigliare, nella giustizia - in poche parole - quel qualcosa che dovrebbe permettere al mondo di girare nel verso giusto. Come siamo arrivati a questo?
Secondo me il sentimento dominante di Michele (che ovviamente è anche il mio) nei confronti dell’esistente non è esattamente la sfiducia. Michele non è precisamente un depresso, non è uno che si rassegna, è un incassatore, diciamo pure un idealista: ed è questo che lo rende comico. Sta così male perché non si capacita del fatto che le cose in teoria dovrebbero girare per il verso giusto e invece, chissà perché, girano per il verso sbagliato e lo stritolano. Per questo la sua storia è una specie di via crucis attraverso una serie di stanze dei bottoni impazzite: l’amore (come si fa a volersi bene in un luogo rabbioso e atomizzante come Roma? Come si fa a pensare ad un futuro di coppia oggi, in questo paese?), la famiglia (come si fa a venire a liberarsene pur restandovi morbosamente attaccati? Come si fa ad accettare che i genitori invecchino?), la politica (come si fa… be’, come si fa con Veltroni?). Quel roveto orrendo che è il cervello di Michele Botta è progettato, alla fin della fiera, come una macchina di Turing: è un sistema in potenza complesso che però agisce su operazioni semplici. Sicché quando gli input si contraddicono (“sono adulto, ho un lavoro, ho una fidanzata eppure non sono felice”), continua ottusamente a pretendere coerenza. E, per forza di cose in un mondo incoerente, impazzisce. In tutto questo discorso, il precariato più che un tema è uno sfondo: ci tenevo molto a sottolineare che il problema principale di Michele non fosse quello di essere un precario (in fondo ha un buon contratto, guadagna discretamente e non è a rischio licenziamento) perche non volevo che La futura classe dirigente diventasse il millesimo romanzo sulla Generazione Precariato. Ovviamente è un problema che c’è, esiste, io stesso lo sconto quotidianamente. Ed è giusto che se ne parli (nei romanzi, da Santoro, e al bar Sport). Ma, come dice anche il mio amico Gabriele Dadati, con questo mito del precariato è come se ci avessero appiccicato un’etichetta in fronte per liquidare con una formuletta tutta una selva di casini infinitamente più complessa. Che è precisamente quella in cui si trova invischiato il protagonista del mio libro.
La somatizzazione del disagio interiore. Un punto che mi ha colpito, perché la somatizzazione è il male del secolo. Come non restarne invischiati?
La somatizzazione è il male del secolo devo scrivermela da qualche parte (anche se secondo me il male del secolo è la calvizie). Non so, io personalmente ho dei grossi problemi con i cicli del sonno e con certi foruncoletti che mi vengono in faccia quando sono stressato. Conosco una persona che per guarire dall’ipertiroidismo da stress ha dovuto cambiare continente. Bisognerebbe chiedere al Dr. House!
Ti senti adulto?
Oddio, in certi momenti sì, mi sento adulto. Perfino troppo adulto, quasi senile. In realtà è strano: quando c’è da fare l’adulto per forza sono una macchina da guerra: io parlo, e la gente annuisce convinta con la testa, ci scambiamo i biglietti da visita eccetera. Poi però se sono appena appena a mio agio, sbraco completamente: ho un umorismo imbarazzante completamente imperniato sulle battute a sfondo sessuale, metto a disagio la gente e così via.
Insomma, di base sono un cialtrone molto bravo a mimare l’adulto. Solo che è una performance stancante, per cui non posso reggerla a lungo.
Cinema, libri, arte, musica. Quali sono i tuoi interessi principali e come interagiscono con l'attività di scrittura, quali stimoli e impulsi trasmettono?
In generale sono un fissato di elettronica. Di qualsiasi genere, dalla minimal techno alla roba più cervellotica. Evito solo la drum’n bass e la house tamarrissima. Ci sono dei dischi che hanno letteralmente cambiato la mia prospettiva sulle cose (un paio di dischi di Plastikman, quasi tutto degli Autechre e, sopra tutto, Man Machine dei Kraftwerk). Nel periodo in cui scrivevo il libro ero andato in fissa con gente tipo Chris Clark e The Field. Poi, evidentemente, sono un bulimico di serie televisive, specialmente le comedy. Scrubs e Arrested Development sono tra le cose più belle che ho mai visto in vita mia. Mi piace molto cucinare: sono una frana a fare i dolci, ma datemi guanciale, funghi, pecorino e tagliatelle all’uovo e solleverò il mondo. Ora, io so che tutto questo in qualche modo oscuro c’entra con le cose che scrivo. Anche il guanciale probabilmente, ma forse non è il caso di indagare adesso.