
Incontriamo Piero Dorfles al Teatro delle Api di Porto Sant’Elpidio. È venuto per incontrare i lettori, gli studenti e il suo compagno di viaggio nella trasmissione “Per un pugno di libri” Neri Marcorè. La chiacchierata con Mangialibri è stata amichevole e piena di spunti di riflessione.
Lavorare con le parole come autore e come critico: che differenza c’è nel loro uso?
Una domanda alla quale non sono in grado di rispondere, perché sono solo un divulgatore, al massimo un critico, e non un autore di letteratura. Scrivo quindi libri e articoli nello stesso modo in cui parlo. E spero si senta, perché cerco sempre di mantenere il tono di una conversazione, che è quello che preferisco, e spero che le parole siano sempre le stesse.
Prendendo spunto dal titolo del tuo libro Il lavoro del lettore le tue letture personali come le scegli? Il tuo libro de chevét al momento?
Leggo, nel limite del possibile, le novità letterarie che mi paiono degne di nota e i saggi che sono vicini ai miei interessi. Sono – per così dire – un lettore di professione, e spesso sfoglio soltanto i libri che non mi convincono, o dei quali (nei saggi) mi interessa soltanto una specifica parte. In questo momento, sul mio comodino, c’è l’ultimo Manzini, che sto finendo, e sul tavolo dove mangio La meridiana di Shirley Jackson; ma sul mio tavolo di lavoro ci sono, appena chiuso, I “mestieri” di Primo Levi di Gian Luigi Beccaria e, appena aperto, Le conseguenze economiche delle leggi razziali, di Ilaria Pavan.
È plausibile paragonare il lavoro del lettore ad una formazione permanente?
Penso di sì. Leggere è un’attività formativa, e credo sia un problema della nostra classe dirigente il fatto che legga poco, e quindi non si aggiorni e non rinnovi la sua formazione professionale e intellettuale. Un paese dove non si legge è un paese che non sviluppa le capacità necessarie a confrontarsi con un mondo in rapida trasformazione e in una competizione sempre più esasperata; e che avrebbe, appunto, la necessità di una formazione permanente.
Consigliare, suggerire, obbligare una lettura, qual è il verbo migliore per gli studenti?
Mai obbligare. Suggerire e consigliare con cautela, soprattutto mettere a disposizione degli studenti un ampio ventaglio di letture in modo che trovino quelle che gli sono più consone. Solo permettendo a ognuno di trovare la strada per il genere di lettura che possa appassionare si può immaginare di aiutare chi studia a imparare il lavoro del lettore.
Le parole hanno un senso e un peso, vale anche per te l’adagio “conta fino 3,7,10” prima di parlare?
Mah, c’è chi non pensa mai, ed è inutile che perda tempo prima di parlare (sarebbe meglio tacesse), e chi ha già molto pensato e sa bene cosa val la pena dire senza esitazioni e su cosa invece è bene riflettere. Non c’è una risposta univoca, dunque: a chi mi chiede cosa penso di un autore che conosco bene risponderò immediatamente. A chi mi chiede di sintetizzare le mie idee sul mito di Proserpina chiederò il tempo di raccogliere le idee. Se ne ho.
Ti sei mai sentito tirare per la giacca per una recensione positiva? Come si fa a non perdere la propria credibilità?
Mai scritto quello che non penso. Di fronte a pressioni per parlare di un libro che non mi convinceva, ho preferito dire che non era nelle mie corde. Se chi insisteva aveva il potere di impormi un pezzo, ho preferito fare un’intervista, nella quale non ero obbligato a dire cosa pensavo e potevo alludere marginalmente alle mie perplessità. Capisco che possa sembrare una scelta opportunistica, ma ho sempre pensato che fosse meglio non aprire conflitti dove non erano eticamente necessari.
Ascoltare parole nuove, cestinare parole desuete. Dove trovi le prime e dove butti le seconde?
Credo che di parole nuove la lingua parlata ce ne offra in continuazione, ma penso anche che tutti abbiamo il diritto di inventarcene qualcuna, quando serve. Le parole desuete, invece, alle volte hanno una capacità di evocare pensieri e immagini che la lingua corrente non ha. Per esempio: usare l’aggettivo “sesquipedale” (piuttosto desueto) dà un gusto di magniloquenza che i sinonimi più comuni (enorme, spropositato ecc.) non hanno. Viva il recupero delle parole desuete che ampliano la nostra capacità espressiva!
Un’ultima domanda, quando entri in una libreria annusi l’aria? Pur avendo dei titoli precisi in mente ti diverti a gironzolare in libertà, proprio come un lettore?
Entrare in una libreria significa poter adocchiare quel che c’è di nuovo sul mercato librario. Un esercizio fondamentale, anche per toccare con mano volumi già segnalati da amici o recensioni, dei quali si vuole capire meglio l’interesse. Odio i libri cellofanati, dei quali non posso nemmeno guardare il sommario, e se ne ho la sfrontatezza alle volte chiedo al libraio di “scellofanarli”. Se no, che gusto c’è ad andare in libreria?