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Intervista a Pupi Avati

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Poco dopo il compimento del settantesimo anno d’età, nonché nel quarantennale dal suo esordio cinematografico, uno dei maestri del nostro cinema - ma anche un capace scrittore di libri di successo – ci svela la sua storia e la sua passione per la musica in un libro e in un’intervista. Una sorta di consuntivo in cui Avati si confessa alternando racconti famigliari di vita vissuta ad aneddoti legati alla sua carriera...




Spesso dopo aver finito di leggere l’autobiografia di un personaggio famoso capita di rimanere con l’amaro in bocca perché ci si accorge di aver letto un libro che in fondo non racconta la verità. Invece in Sotto le stelle di un film si ha subito la sensazione di trovarsi di fronte ad una confessione sincera, come accade davvero di rado: com’è è successo questo piccolo miracolo?
Premetto che io sono un divoratore di biografie, che in Italia, al contrario degli Usa dove le librerie ne sono piene, è un genere non troppo frequentato. Quando leggo una biografia il capitolo che vado a leggere per primo è sempre quello che riguarda la morte: parto sempre da lì e poi, come un lungo flashback, rileggo il libro da capo. Non so il perché, ma forse debbo capire come e a che punto si è conclusa la vicenda. E poi un altro elemento che cerco nelle biografie è capire in che modo, attraverso quale incontro, quale situazione o quale miracolo è accaduto che questo essere umano oggetto della biografia, apparentemente insignificante e così simile a tutti gli altri esseri umani, sia improvvisamente riuscito a dire o fare quella cosa, a scoprire se stesso. Questa rivelazione solitamente nel libro non c’è mai: che sia un’autobiografia o una biografia, non viene mai detto. Sono come tre pagine che mancano e che invece renderebbero questo evento letterario molto più importante. Tornando alla domanda sulla sincerità del libro, trovo che ci siano due motivi prevalenti: il primo è strategico e me lo insegnò Ugo Tognazzi, attore con cui ho girato due film. L’approccio con Ugo era veramente spiazzante perché lui esordiva in qualunque circostanza con una dichiarazione di debolezza. La prima cosa che diceva di sè era una cosa che riguardava un suo fallimento, qualcosa che gli era andato male, anche in ambiti molto intimi, come ad esempio quello affettivo/sessuale. Queste dichiarazioni da parte di una persona che tu non conosci, che improvvisamente ti dice delle cose molto intime, questo suo modo di raccontarsi così esplicito, permettevano di verificare subito se l’altro rispondeva con una dichiarazione di altrettanta autenticità, e quindi di debolezza. In questo modo erano by-passati, totalmente stravolti tutti i preliminari di una interlocuzione: in caso positivo si diventava improvvisamente e autenticamente amici, oppure, al contrario, rispondendo non all’altezza della sua confessione o in difesa, a quel punto avevi chiuso con Ugo. Comunque io trovo che la sincerità permetta al lettore di leggere, dopo pagina 2, anche la pagina 3 e di andare avanti, perché ti trovi in un mondo convincente in cui sei attratto, perché senti che non ti stanno fregando ma parlando di loro stessi a cuore aperto. L’altro aspetto della sincerità invece è legato all’egocentrismo, una sorta di civetteria, dato che a ognuno di noi fa piacere parlare di sè. Quindi questa autobiografia è effettivamente molto sincera perché non c’era nessuna ragione per non esserlo. Io sono come appaio nel libro di Paolo Ghezzi e ho insegnato anche ai miei figli a comportarsi in questo modo e ad essere sinceri: sembra che sia un metodo che può produrre anche delle grandissime delusioni, perché è evidente che se non sei strategico è probabile che con certe persone le cose poi non andranno a finire così bene. Però, nel momento in cui si instaura un’amicizia, quella è un’amicizia davvero definitiva. Del resto anche in un Paese come l’Italia c’è un sacco di brava gente: io ho fatto tanto cinema e se con mio fratello siamo qua dopo quarant’anni e facciamo ancora i nostri film è perché ogni volta che andiamo a parlare con qualcuno che sta dietro ad una scrivania, questi, anche se cambiano, sono sempre personaggi che ci stanno ad ascoltare. E noi gli vendiamo delle parole, gli vendiamo del fumo, gli promettiamo che sarà un capolavoro, che il film andrà all’Oscar e faranno i miliardi. E poi non accade. Ma la volta dopo trovi ancora una persona che ti ascolta. Il risultato di un’interlocuzione dipende anche da come ci poniamo. Quando vengono gli attori ad incontrarmi io li divido in due categorie: ci sono alcuni che arrivano e che hanno già la rinuncia, la sconfitta scritta in faccia: ti buttano il book sul tavolo, ti guardano e non vedono l’ora che tu gli dica «mi dispiace...» e allora se ne vanno arrabbiati, prendono a calci la fidanzata perché non ci volevano venire e dicono «me pareva pure frocio...» e così hanno giustificato il loro fallimento, legittimato dallo slogan che «tanto vanno avanti solo i raccomandati, solo quelli che vanno a letto, eccetera...». Infondere queste false notizie è veramente far del male ai nostri figli. Quando entra invece nel mio ufficio l’altro genere di attore, quello che ansima sin dall’ingresso, che lo vedi entrare e guardare tutto l’ufficio, i premi, le foto con degli occhi che sono come delle telecamere digitali. Infine poggia il suo book sul tavolo come fosse il Santo Graal: quando lo apro c’è una foto con lui con la brillantina che guarda di profilo e mi fa «Eeh?»; e poi la foto con una sigaretta e mi fa «Eeh?» e via discorrendo, poi come faccio io alla fine con questo poveraccio, che si attende tanto da me, che crede che io sia tanto potente da potergli cambiare la vita, a mandarlo via e a dirgli che non c’è niente da fare? Io prima o poi a questo una porta gliela lascio aperta e prima o poi entra in un mio film, magari con una battuta ma entra. Le condizioni quindi le stabiliamo entrambi, non le stabilisce né lui né io: si è sempre in due a fare una storia.

Come ti è venuta l’idea di cominciare a fare cinema lontano dalla realtà produttiva romana per reinventarlo proprio nella tua Bologna?
Abbiamo cercato di fare film a Bologna negli anni ‘60 proprio perché eravamo provinciali! E lo dico col piccolo orgoglio di chi ancora riteneva che Bologna fosse una città di provincia. A dirlo oggi si offenderebbero tutti, ma la Bologna nella quale siamo nati noi era una città di provincia. Nascere in un contesto provinciale vuol dire considerarlo il macrocosmo, l’universo. Tutto quello che succede si misura con quella che è la realtà di quel posto. La più bella donna del mondo è una bolognese, il più buon ristorante è lì, eccetera: l’altrove non esiste! Questa è un po’ la cultura dei bar, la cultura dei piccoli centri: tutto quello che conta lo stabilisce, lo impartisce e lo determina il salotto buono della città, che emette quotidianamente le gerarchie e le classifiche. Pietro Germi ad esempio è stato un maestro nel descrivere questo tipo di ambienti nei suoi film. Noi perché abbiamo fatto il jazz a Bologna? Perché volevamo piacere alle ragazze di Bologna e ai nostri amici, perché volevamo essere amati di più di quelli che non erano in vista. E così, successivamente, come avevamo fatto col jazz, abbiamo provato a fare anche il cinema decontestualizzato, decentrato, sempre per delle ragioni di basso profilo, per certi versi imbarazzanti da dire. Ancora oggi quando faccio i miei film, in qualche modo sono come delle cartoline e delle lettere d’amore che mando ai miei amici, alle ragazze che mi hanno rifiutato. Anzi, possiamo dire che uno dei temi centrali della mia vicenda di oggi è quella di vendicarmi di tutte quelle ragazze che all’epoca non hanno capito quanto io ero carino! Quindi siamo rimasti in un ambito in cui ci si misura con delle unità di misura molto basse. E chi è provinciale, come lo sono io, rimane in questa dimensione, difficilmente riesce a superarla. Il cinema che abbiamo provato a fare all’inizio ha tentato di rimanere sotto casa per portare davvero il cinema sotto le case dei nostri amici. Così, con spirito molto sessantottino, ci siamo inventati una professione che non avevamo mai fatto, probabilmente anche con qualche approssimazione di troppo. Per cui i nostri primi film come Balsamus e Thomas, essendo tutti e due fortunatamente perduti, li possiamo considerare perfettamente riusciti perché tanto nessuno li potrà mai vedere! Comunque la Bologna nella quale abbiamo fatto il cinema noi era una città davvero lontanissima dal cinema. E noi l’abbiamo fatto in un modo molto superficiale, con uno stato di approssimazione eccessivo, vivendo due disastri, due insuccessi accertati nella gioia della città intera, dato che la provincia è spietata e crudele. Nel momento in cui noi siamo riusciti a realizzare questi film, ci siamo avvantaggiati soprattutto in ambito sentimentale: mai nella vita ho avuto tanto successo con le donne come allora! Ma poi il susseguente insuccesso dei film ha fatto sì che tutta la città godesse di questo insuccesso. In un bar mi fecero addirittura uno scherzo facendomi credere di parlare al telefono con Dino De Laurentiis. Sollevai la cornetta e una voce mi disse «Pronto è la De Laurentiis, le passo il dottor Dino». «Prego...» faccio io. Ma invece di pronto mi arriva una pernacchia generale di tutto il bar. Ormai ero oggetto del dileggio di tutta la città e quindi sono dovuto scappare a Roma, perché non mi sarebbe stato più possibile in alcun modo mantenere in vita questo progetto, questo sogno: ero rimasto completamente solo. Poi a Roma dopo quattro anni, fortunatamente, tramite la generosità di Ugo Tognazzi le cose per me sono molto cambiate.

Il libro racconta benissimo come diventa adulto un ragazzo di provincia, che peraltro, amando moltissimo la musica, all’inizio sceglie una strada sbagliata. Tuttavia capisce presto che quella direzione non lo porterà da nessuna parte ma, piuttosto che rassegnarsi e adagiarsi su una vita tranquilla - essendo ormai sposato e avendo trovato un impiego fisso alla Findus - scopre che la sua missione è quella di raccontare delle storie e che il cinema è il mezzo migliore per farlo. Pur essendo cambiati i tempi, questa tua esperienza può essere un messaggio di speranza anche per i giovani d’oggi?
In base alla mia esperienza mi sento di consigliare ai giovani d’oggi di coltivare sempre un sogno, un progetto e a non essere piegati da questa diffusa cultura del pessimismo che soprattuto le persone adulte tendono ad impartire, privando spesso i più giovani dell’opportunità di coltivare un progetto anche molto ambizioso. Perché vi posso garantire che tra l’essere impiegati alla Findus nella Bologna degli anni ‘60 e riuscire a fare il regista cinematografico c’è una distanza abissale: passare dai bastoncini di pesce a "8 e ½" di Fellini c’è veramente un universo, un percorso incredibile. Eppure questo miracolo è avvenuto.

Comunque per passare dall’avere un posto fisso alla incertezza più totale, a rischio di essere anche derisi, è necessaria anche una buona dose di coraggio e di fortuna...
La mia esperienza è avvenuta in una stagione in cui uno straordinario film di Ermanno Olmi, Il posto, si occupava proprio del garantirsi attraverso un impiego tutta una vicenda umana, ma al contempo anche del diventare ostaggio e prigioniero di questa vicenda umana e di questa professione, che non solo ti garantiva la sopravvivenza ma pretendeva da te anche la rinuncia e l’abdicazione a qualunque altra maniera di esprimerti. Io e mio fratello Antonio abbiamo avuto la fortuna di avere una grande madre che invece ci ha in qualche modo legittimato: essendo vedova - e quindi possedendo quel senso di colpa che hanno le mamme vedove che vedono i loro figli privi di una figura paterna - lei ha interpretato tutti e due i ruoli, tentando di darci molto di più di quanto invece non avessero anche figli che avevano a disposizione entrambi i genitori. Quindi ci ha assecondato in tutti i nostri sogni: mamme così all’epoca erano rare. Tuttavia oggi c’è il problema dell’assenza dei genitori che forse incide ancora di più...

Quale fu il tuo primo contatto col cinema a Bologna?
Il primo regista che vidi e che sentii parlare direttamente è stato Eriprando Visconti. Venne a Bologna a presentare Una storia milanese al Cinema Perla. Mentre il primo regista che con mio fratello vedemmo girare fu Florestano Vancini che venne a Bologna per La banda Casaroli e che poi girò a Ferrara La lunga notte del ‘43, due bellissimi film tra l’altro. Quello fu il primo incontro col cinema in azione.

Nel film Gli amici del bar Margherita cosa c’è di vero e cosa di inventato?
Nel film racconto un anno di vita di un bar di provincia, che sarebbe il Bar Margherita che stava a via Saragozza a Bologna, di fronte a casa mia. Io nel 1954 avevo sedici anni e dalle finestre scendendo vedevo i personaggi di questo bar che mi sembravano tutti degli eroi, dei personaggi ai quali ispirarmi: c’era il più grande giocatore di biliardo, quello di carte, il donnaiolo... ognuno di loro aveva della peculiarità, ma soprattutto si divertivano come dei pazzi e mi sembrava che ciascuno investisse gran parte della propria creatività per far divertire gli altri. Il senso della giornata lo producevano nell’aspettare di andare finalmente al bar per fare quella cosa che avevano progettato di fare e che avrebbe stupito e divertito gli altri, che poteva essere uno scherzo come qualunque altra cosa. Io che ero timido e complessatissimo li ho sempre guardati da fuori : non sono mai riuscito a diventare uno degli amici del Bar Margherita. La provincia è così: io ammiravo la trasgressività senza riuscire a praticarla. Ma tornando a quanta verità c’è nel film. La verità è pochissima: più che altro si tratta della messa in campo di uno stato d’animo. Io so che i veri personaggi del bar si aspetterebbero di essere celebrati, ma purtroppo non hanno delle vicende sufficientemente interessanti da poterci fare un film. Allora abbiamo messo assieme una serie di spunti e di situazioni viste a Bologna nell’arco della mia adolescenza e giovinezza e le ho tutte ricondotte all’interno del contesto di un bar. Ma in realtà di vero, di riconoscibile e di autentico c’è assolutamente poco. Io continuo a raccontare una Bologna come avrei voluto che fosse, non com’era in realtà.

Infatti per girare il film hai ricostruito il centro di Bologna a Cuneo...
Sì, anche se soltanto in parte. Ma c’è una ragione valida per questo. Per il film Il papà di Giovanna abbiamo dovuto girare a Bologna delle scene notturne ritrovandoci in una situazione molto complicata, perché il centro di Bologna, soprattutto nella zona dell’università e di via San Vitale e dove abitavo io, ormai è una zona difficile. Questa volta avevamo bisogno di una Bologna di giorno, solare, luminosa, coi portici, i negozi: per molte ragioni a Bologna non c’è più la disponibilità di tutte queste cose. Cuneo invece ha difeso tutti i suoi portici in un modo fantastico: pur potendo trovarci dentro qualsiasi tipo di prodotto moderno come un iPod, tutti gli arredi esterni dei negozi sono quelli originali degli anni ‘30, ‘40 e ‘50. Nel rispetto di queste caratteristiche io ho ritrovato l’aspetto della Bologna della mia infanzia. Ma del resto mi sembra che anche Fellini abbia ricreato la spiaggia di Rimini a Fregene...

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