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Intervista a Raul Montanari

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Tra gli scrittori più apprezzati e celebrati sia dal pubblico sia dalla critica, Raul Montanari - anche traduttore di primissimo livello - è da poco tornato in libreria per Baldini + Castoldi con un romanzo grandioso in cui si intrecciano temi diversi e assai contemporanei, la fatica di un autore che da oltre trent’anni si occupa di letteratura in modo assolutamente unico e trasversale. Lo abbiamo raggiunto alla fiera milanese Bookcity 2019, per scambiare quattro chiacchiere sul mestiere della scrittura e sui suoi romanzi. La foto è di Leonardo Cendamo.




Sono passati trent’anni da Il buio divora la strada, il tuo primo romanzo. Come credi che si sia evoluta da allora la tua narrativa e come ti poni davanti la pagina bianca rispetto ad allora?
Sicuramente si è evoluto il mondo intorno, e parlo del mondo letterario. Quando ho scritto Il buio divora la strada era il 1988 e non a caso il libro è uscito solo nel 1991, tre anni dopo. Questo perché il noir in Italia non esisteva. Tant’è che sia questo romanzo sia il successivo, La perfezione, che è stato scritto nel 1991 ed è uscito nel 1994 – dunque sempre tre anni dopo, questo fa capire bene la difficoltà nel trovare un editore; alla fine, nel caso del primo è stato Leonardo Mondadori, nel caso del secondo Feltrinelli –, sono state opere seminali. Insieme ai romanzi di Lucarelli e Pinketts hanno creato questa ondata che oggi è una vera e propria marea. Il buio divora la strada è passato quasi inosservato se non per una bellissima recensione fatta da Goffredo Fofi, all’epoca era un intellettuale molto importante. La perfezione, invece, ebbe una cartella stampa enorme. La cosa curiosa, a proposito, è che durante molte interviste i giornalisti mi chiedevano spesso: “Scusi, ma lei perché ha scritto un noir?”. È una domanda che oggi non avrebbe senso, è un’opzione talmente a portata di mano, è talmente naturale aspirare ad avere un così largo successo di pubblico con un noir che i giovani autori, o almeno la metà, iniziano così. Ecco, noi allora abbiamo provato ad aprire queste nuove strade, ma agendo in realtà in modo indipendente. Ci siamo conosciuti dopo, io, Lucarelli e Pinketts. Il noir di Lucarelli è diventato il più famoso, ma è stato anche quello che ha fatto più fatica all’inizio; ha pubblicato almeno sette o otto titoli con editori minori o addirittura defunti come Granata Press prima di approdare a Einaudi Stile Libero. Lui ha iniziato subito con due filoni, un noir scanzonato e ironico e un noir storico, che è quello che poi è venuto fuori nei suoi programmi televisivi. Pinketts ha lavorato in modo originale sul linguaggio, invece. C’è da tenere presente che lo stile è l’ultima cosa che viene chiesta a un narratore di genere, la narrativa di genere per suo “statuto” è basata su una sorta di contratto con il lettore che si fonda sul tipo di storia che viene narrata, non su come viene narrata. L’horror deve contenere fatti soprannaturali, ad esempio. Il giallo, il noir e il poliziesco girano attorno a crimini come delle morti violente. E così via. Tutte queste narrative non vendono al lettore uno stile, ma un tipo di storia. Una storia che contenga degli elementi o ambientali o di trama che si sa che devono esserci. Per cui il lavoro di Pinketts è stato molto originale e di solito negli scrittori di gialli o noir la cosa che difetta di più è la scrittura. Per quanto riguarda me, io ho provato a fare il noir esistenziale metafisico, cioè quello di tradizione franco-tedesca. Pochi autori hanno seguito questo tipo di suggestione, che si potrebbe riassumere così: raccontare storie eccezionali che capitano a persone normali. Questo è quello che nel 2009, quando è uscito il mio libro più amato e forse più premiato che è Strane cose domani, è stato chiamato post noir. La cosa paradossale è che, io che sono stato nel pre noir, almeno in Italia, poi mi sono ritrovato a capeggiare, con pochi compagni di strada, aggiungerei, il post noir, cioè l’idea di mantenere certi elementi atmosferici del noir, come la suspence e la presenza della violenza, ma non considerarli presupposti. È per questo che io oggi mi sento estraneo agli scrittori di noir. Sono amico di molti di loro – De Giovanni quando mi incontra mi chiama maestro, pensa! – perché quelli colti conoscono la storia del noir in Italia.

Ti occupi di letteratura in modo molto trasversale. Hai una tua scuola di scrittura creativa, scrivi romanzi, sceneggiature e lavori come traduttore. In questi modi di promozione e di produzione letteraria, qual è il genere e quale il veicolo che senti che ti appartiene di più?
In assoluto il lavoro più importante è quello del traduttore. Questa lezione me l’ha data molto tempo fa Aldo Busi, che all’epoca è stato uno dei miei scopritori e mentori. Mi ricordo che Busi, a sua volta un grande traduttore, mi disse che questo era l’unico mestiere compatibile con quello dello scrittore. La traduzione porta a forzare i limiti del linguaggio, sei come un direttore d’orchestra che interpreta lo spartito di un altro musicista. Per questo sei costretto a non essere pigro, devi sempre inventare soluzioni linguistiche che non ti apparterrebbero suonando la tua musica. Per me è stata un’esperienza straordinaria, consumatasi proprio negli anni Novanta. Ho tradotto una ventina di libri, e tutti importanti; quattro di Cormac McCarthy, alcuni super classici come Edgar Allan Poe, Robert Louis Stevenson, William Shakespeare e poi Sofocle, Seneca e altri. È stata un’esperienza straordinaria per ampliare la mia strumentazione. Quando mi hanno dato l’Ambrogino d’oro, il premio istituzionale della città di Milano, è stato fatto anche riferimento alla mia attività di traduttore, perché questo mestiere è ovviamente un ponte tra culture. È molto importante. Molto anche dello stile che elabora un giovane autore gli arriva non da autori della sua lingua, ma dal linguaggio dei traduttori di scrittori inglesi, francesi e così via. Ecco, il traduttore ha una grande responsabilità, ma in contraddizione con questo fatto è il mestiere peggio pagato in campo editoriale. Al secondo posto c’è l’insegnamento della scrittura creativa. Oggi il desiderio di voler pubblicare un libro è diventato veramente un fenomeno sociologico, se vent’anni fa si diceva che “nei cassetti degli italiani c’erano un milioni di manoscritti”, oggi la situazione è peggiorata! Una battuta, ovviamente, ma per farti capire. È veramente un fenomeno di massa che credo abbia a che fare con l’affermazione di sé, l’affermazione della propria identità. Si cerca di farlo seguendo la strada più semplice, in un certo senso: l’espressione attraverso la parola sembrerebbe sempre la più facile… la parola è uno strumento alla portata di tutti, in fondo. Ecco, in realtà, da questo punto di vista l’impressione di una via d’accesso semplice rispetto ad altre tecniche espressive fa sì che sia proprio la corrida del dilettante. Così si è sviluppato ciò che io chiamo la mungitura delle vacche, una serie di fenomeni parassitari che offre alle persone con questo desiderio di cui stiamo parlando dei servizi di pubblicazione, naturalmente sempre a pagamento. Poter frequentare una buona scuola di scrittura fa la differenza oggi. Dei miei allievi, più di cinquanta hanno pubblicato con grandi editori. Adesso pubblico con Baldini + Castoldi, appartenente allo stesso gruppo de La nave di Teseo con cui pubblica invece Luca Ricci. Ecco, a suo tempo (venticinque anni fa) Luca non è stato un allievo perché non avevo nemmeno una scuola, ma un discepolo, che sul piano della purezza letteraria ha superato il maestro. Ma lo potrei dire anche di altri: allievi o appunto discepoli che considero più bravi di me o che come minimo vendono più di me, come il mio caro amico Romano De Marco.

I LIBRI DI RAUL MONTANARI