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Intervista a Remo Rapino

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Già docente di filosofia nei licei, poeta e scrittore, Remo inizia a pubblicare nel ’93. Nel 2020 vince il Premio Campiello con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio. L’anno successivo esce Cronache dalle Terre di Scarciafratta, uno dei libri più belli che ho letto negli ultimi anni e alla cui presentazione – durante Più Libri Più Liberi 2021 – Rapino ha duettato simpaticamente con il collega Fabio Stassi. Conosciamolo meglio.



Alla presentazione del tuo libro nella Nuvola di Fuksas ho percepito la presenza entusiastica di quello che sembrava un vero e proprio fan club di lettori: sei consapevole di avere un pubblico che non solo ti apprezza, ma che è letteralmente affezionato?
Nel tempo ho avvertito anch’io questa sensazione, una piacevolezza interiore che emoziona. Chi scrive, scrive sempre un po’ di sé, ma anche chi legge, legge sempre un po’ di sé. Si coglie a volte quasi una coincidenza: di sentimenti, di esperienze, di anime direi. E io sono contento, e non poco, di farne parte. Molto merito va all’amico Fabio Stassi, alla sua grande capacità di creare sintonie di sentimenti. Una persona a cui voglio molto bene, insieme a tanti altri che ho incontrato e incontro nelle varie occasioni.

Se non sbaglio hai iniziato a pubblicare dopo i quarant’anni, poi, alla soglia dei settanta arriva il Premio Campiello e il premio speciale Flaiano. L’avresti mai immaginato?
Campiello, Flaiano, ma anche altri riconoscimenti, inviti a Festival… Sinceramente no. Mi sono trovato all’interno di un viaggio sorprendente, quasi navigassi per l’isola che non c’è, un’Itaca come nella poesia di Kavafis. Che poi l’importante non è nell’approdo al Campiello, ma in tutto quello che si è visto nel viaggio, l’incontro con le persone, i nuovi amici, Frizziero e Zeno, poi sedere a fianco di Guccini, la colonna sonora dei mei anni giovanili e, perché no, pure attuali. A volte ci ripenso e me ne stupisco ancora. Pensieri che fanno bene alla mente e al cuore.

Già che abbiamo citato Flaiano, abruzzese come te: l’ironia – anche amara - che scorre tra le tue righe ha qualche grado di parentela con quella del tuo conterraneo?
Flaiano, per molti versi, lo sento davvero come un parente stretto. La sua è la voce del mio Abruzzo, insieme a Silone, che mi porto dentro da anni, perché entrambi credono nella parola. Una parola che può ferire e convincere, far capire il senso del mondo e trovare in questo una possibile quiete. La scrittura non è mai e solo un meccanico rispecchiamento della realtà, bensì un incrocio tra reale e immaginario. Dice Flaiano: “Sognatore è un uomo con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole”. La più bella definizione di uomo che, tra le altre cose, scrive. Come il poeta che vola alto, ma con i piedi ben saldi alla terra. Del resto, ancora Flaiano: “La poesia è una vita di scorta. Ci aiuta a vivere i giorni che ci sono dati”.

Cito un passo di Cronache dalle Terre di Scarciafratta: “Ma gli occhi, ce l’avete gli occhi? Ma lo vedete il silenzio?”. Le frequenti suggestioni sinestetiche che adoperi sono frutto del tuo essere poeta?
In effetti è così. Non nego di “coltivare” un codice lirico nella scrittura. Forse mi piace giocare con le parole, del resto ve ne sono tante e quasi mi dispiace di lasciarne molte indietro. Poi la poesia anima le pagine con immagini e sogni. Ho scritto molta poesia e ancora lo faccio: il verso apre spazi immensi, dice molto con “poco”: mi sento poeta nel senso etimologico della parola, di colui che fa, produce qualcosa, consapevole che con la parola ci si può permettere di tutto, perfino la sincerità. Mi riconosco nelle definizioni di Corazzini: “Perché mi dici poeta. Io sono solo un bambino…” o in quella di Dylan, “The people say I’m a poet”… Lo dice la gente!

Restiamo su Cronache dalle Terre di Scarciafratta: nomini apertamente la vicenda di Marcinelle verso la fine del libro eppure, già a pagina 37, è incredibilmente evidente per il lettore che, pur senza nominarla, stai parlando di quella tragedia avvenuta in un posto “con un nome che sapeva di ferro, carbone e cemento”. Che ricordo hai e cosa ha rappresentato per te quell’evento?
Nel 1956 avevo solo cinque anni, ma ricordo discorsi, volti tristi. Passavo le vacanze nel paese di mia madre, da dove partivano di continuo molti lavoratori, e tanti proprio verso il Belgio. Quel ricordo l’ho coltivato negli anni, parlando con chi l’aveva vissuto (Covata Nunziatino lu belgese, p.158 sgg.), leggendo cronache, testimonianze, giornali dell’epoca, il poemetto di Eraldo Miscia, Nessuno lo sapeva che eravamo santi, altro ancora. Marcinelle rimane simbolo delle ingiustizie della storia e di un modello economico-sociale disumano, che ancora persiste in quanto luogo delle sofferenze infinite del mondo.

Professore di filosofia nei licei: raccontaci il tuo rapporto con l’insegnamento e la scuola…
Spesso ho incontri con i ragazzi delle scuole. Amo molto farli, quasi che contenessero la magia di farmi tornare indietro nel tempo. Un sogno che abbiamo tutti, almeno credo. Dico loro, in esordio, di aver svolto la funzione di insegnante senza mai dimenticare di essere stato anche uno studente. La scuola, se correttamente intesa, è l’ultima isola di libertà. Luogo di accettazione della diversità, di accoglienza dell’altro. La scuola deve essere dialettica, “eretica”, nel senso che deve eliminare i rischi della “scolasticità”. Anche l’educatore deve essere “rieducato”. Gli scritti gramsciani, ma anche Pasolini, sono illuminanti. Saranno gli effetti collaterali del ’68, ma me li tengo stretti in ogni caso. In fondo siamo quello che siamo stati. Non è buona cosa rinnegare sé stessi.

Qual è la letteratura che il Rapino lettore ama?
Amo scoprire linguaggi nuovi, al di là delle storie. La scrittura rivela mondi incredibili: un libro è, prima di ogni altra cosa, un essere vivente. La letteratura la intendo come un amore pieno di infiniti amori. In ogni modo una letteratura che non abbandoni mai, come diceva Lorca nei suoi saggi, i sentieri dell’umano. Come indicazioni generali: la letteratura delle Americhe, ma anche quella iperborea, gli scrittori russi e quelli dell’Est europeo. I libri più amati, senza far torto agli altri: Cent’anni di solitudine e l’Antologia di Spoon River. In effetti la loro anima la si può ritrovare, con un po’ di fantasia, dentro le Cronache dalle terre di Scarciafratta. La migliore risposta è che amo leggere: un bel modo di viaggiare seduti sul balcone di casa.

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