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Intervista a Riccardo Pirrone

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Riccardo di professione non fa lo scrittore. Ma dato il successo del suo primo (e a sentire lui) ultimo libro si è dovuto adattare alle esigenze di un festival della letteratura e a Lucca città di Carta 2020, dopo una chiacchierata amabile con il pubblico, si è seduto diligentemente per il firmacopie del suo successo editoriale, che narra la sua esperienza di comunicatore e la sua strategia di marketing per una nota agenzia di pompe funebri del Lazio. Riccardo, vestito in maniera casual e con mascherina e guanti come da norme anti COVID-19, ha svolto il suo compito autografando libri con tanto di dedica, dopo di che si è rinchiuso in una stanzina con me e mi ha raccontato come è arrivato a essere anche un autore di successo e soprattutto quello che realmente pensa dell’editoria italiana. Questa la sua intervista per i lettori di Mangialibri.




Riccardo, il tuo libro è uscito da poco più di un mese ed è già un caso letterario; un bestseller del 2020. Come ti fa sentire questa cosa e avresti mai immaginato un tale successo?
Per me è una sensazione strana perché non sono uno scrittore, ma appunto un pubblicitario, ed è bello andare in giro a presentare il libro, ma anche singolare. Di fatto, però, il mio libro come tanti altri che si possono trovare in libreria è un prodotto, e noi lo abbiamo trattato e considerato proprio così. Un prodotto che ha dietro un marketing, uno studio, tanto che prima di pubblicarlo abbiamo creato una community, lo abbiamo presentato come lo si farebbe per un qualsiasi prodotto commerciale e abbiamo raccolto i frutti di questo lavoro. Forse è proprio questo che manca all’editoria italiana, un progetto a lungo termine che coinvolga il più ampio pubblico possibile, la capacità di impostare un piano marketing per i libri che sono in uscita. E quindi spostare gli obiettivi e pensare che un libro vende non perché è sicuramente migliore di un altro, vende perché è riuscito a interessare tante persone ancora prima di essere in libreria e che poi lo hanno acquistato naturalmente.

Tu segui la comunicazione di molte importanti aziende, sia a livello nazionale che internazionale. Quanto prendi da tutte loro, dal mondo dell’imprenditoria più importante e quanto dai tu a loro, che arricchimento reciproco c’è stato in tutti questi anni in cui tu hai svolto questo lavoro?
Io credo che in tutti i settori in cui opero è come se diventassi esperto di quello che vado a trattare, quasi in maniera istintiva. Mi succede così quando devo occuparmi della comunicazione di una pizzeria, di una società di pompe funebri o altro. E forse proprio questa mia capacità non solo di adattarmi e di entrare specificatamente in quello che devo trattare a livello di comunicazione, ma di cercare di approfondire la mission dell’azienda e il pubblico a cui si rivolge mi ha aiutato moltissimo, soprattutto ad allargare i miei orizzonti. E così sono finito a collaborare anche con il WWF e Medici senza Frontiere dando sempre il massimo. Aiutato negli ultimi anni anche dai social che mi hanno dato una grossissima mano nella mia capacità di espressione e di progettazione. Pertanto, c’è una vera e intensa sintonia tra me e le aziende con cui collaboro e uno scambio reciproco più che costruttivo.

Nel tuo libro parli di Last Hello, un ultimo saluto da dare a chi non c’è più, ma in forma meno drammatica, più gioviale, quasi ironica. E quindi possibile trattare un argomento come la morte in chiave più “leggera”?
Di base il discorso positivo e propositivo è quello che facciamo. La Taffo non è la solita agenzia di pompe funebri che ti lascia il telefono e poi tu la chiami per il servizio classico e stop. Noi cerchiamo di parlare con le persone e di interessare le persone a discorsi un po’ più ampi, a temi sociali che possono coinvolgerli o meno da vicino. Non ci interessa parlare di Taffo come il solito “cassamortaro”, così si dice a Roma, che prende i soldi per un servizio determinato e poi finisce lì. Gli impresari di pompe funebri, al di là del loro lavoro, sono cittadini e persone come tutti gli altri, hanno anche loro a cuore temi importanti e di grane valenza sociale. Impostare con i futuri clienti uno scambio di vedute, di propositi, di fini comuni può portare, poi, a trattare anche la morte in modo non così meccanico o solo economico, ma a qualcosa di partecipativo che nasce e scaturisce da una community di discussione e confronto.

In Taffo ironia della morte si affrontano, però, anche temi delicatissimi e controversi con l’eutanasia. In che modo ti sei approcciato a un argomento come questo e come hai deciso di parlarne anche ai più giovani su un social?
Il post non è ancora uscito sui social e quindi non è stato ancora letto da tutti i giovani che mi seguono. È un post inedito che per ora è solo nel libro. Ma lo farò uscire a breve, ed è un post pensato insieme all’associazione Luca Coscioni che si batte da tempo su questo tema. Per parlare ai giovani di argomenti come questo c’è bisogno di interessare gli stessi a quello di cui vuoi che poi si discuta, devi parlare la loro lingua, in poche parole. Quindi se riesci a fare un post che per loro è simile a tanti altri con cui si confrontano ogni giorno e che riconoscono a livello di comunicazione, allora li fai entrare anche in un argomento complicato e importante come l’eutanasia e a fare in modo che quel post venga letto, commentato e condiviso anche dai più giovani.

Bene Riccardo, ora che sei stato pubblicato da un editore “figo” come dici tu e hai venduto migliaia di copie, pensi di fare anche lo scrittore, “da grande”?
No, non farò mai più un libro. Proprio perché è un mondo lontanissimo da me e che non comprendo. Perché è proprio un universo che ancora, dopo decenni, non capisce affatto come si vende un libro. Gli editori, anche i più grossi, non hanno nessuna idea di marketing, di comunicazione spicciola, che usano tutte le aziende normali. Ora, se partiamo per assurdo che la produzione in sé di un libro non è così lontana da quella di una lacca per capelli perché non mettere in campo una strategia di vendita anche per il prodotto libro? È questo che proprio non riesco a comprendere. Ed è una cosa che dovrebbe riguardare tanto l’autore emergente che quello famoso. Uno scrittore che non ha una community, che non ha un progetto per rendere appetibile quello che sta andando a pubblicare come pensa di poter arrivare a tutti? Poi, paradossalmente io ho incontrato anche scrittori che ha hanno scritto per loro stessi. Ma se il libro lo vuoi vendere, se vuoi che arrivi al più ampio pubblico possibile, una strategia di comunicazione la devi avere. E vale per gli autori, ma ancora di più per le case editrici. Per cui, a meno che io e l’editoria italiana non cominceremo a parlare la stessa lingua, Taffo ironia della morte resterà il mio unico libro.