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Intervista a R.J. Palacio

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R.J. Palacio è una donna dallo sguardo attento e dal sorriso aperto. In Italia per celebrare il decimo anniversario dell’uscita nel nostro Paese del suo clamoroso bestseller Wonder e per presentare il suo lavoro più recente, Pony, si presta volentieri a un’intervista a tutto tondo, nella quale si parla di gentilezza e goffaggine, felicità e redenzione, disabilità e bullismo. Ascolta con attenzione ogni domanda ed è generosa ed estremamente sincera nelle risposte, che raccontano di una madre capace di dialogare con i giovani e di una scrittrice appassionata.



In questi dieci anni cosa ha insegnato Wonder a tutti i ragazzi affetti da una disabilità? E a quelli che invece non ne hanno?
Direi che ha insegnato a entrambi i gruppi, alle persone disabili e a quelle non portatrici di alcuna disabilità, la stessa cosa: una sorta di invito alla gentilezza. È stato, credo, un'ispirazione o forse un modello per spingere i ragazzi a essere più gentili gli uni con gli altri, a prescindere dalle abilità o disabilità. Per quanto riguarda in modo più specifico la comunità di disabili, penso che Wonder abbia aperto delle porte, invitando chi disabile non è a essere più aperto a formare nuove amicizie. Credo quindi che l'impatto sia stato di fatto lo stesso nei due gruppi di persone. Sicuramente i disabili hanno beneficiato di una maggiore gentilezza da parte delle persone non disabili.

Quanto è difficile per un ragazzo scegliere di essere gentile? Si tratta delle stesse difficoltà di un adulto, secondo te?
Credo che tutti – adulti, bambini e ragazzi – provino la stessa sensazione nei confronti della gentilezza, cioè il fatto che essa susciti una singolare forma di timidezza. La gentilezza richiede interazione: spesso ci interroghiamo e ci rendiamo conto che dovremmo compiere un particolare gesto per aiutare una persona in difficoltà. Tuttavia, interviene una sorta di goffaggine che ci intimidisce, perché non vogliamo prevaricare né essere fraintesi. L’incertezza che ne consegue ci impedisce talvolta di compiere quell’atto di gentilezza, perché non vogliamo essere respinti, né vogliamo che il nostro gesto gentile venga male interpretato. A volte, infatti, un atto di gentilezza può anche suscitare un certo scetticismo. L’incertezza è quindi difficile da superare e in genere solo le persone naturalmente gentili compiono atti di gentilezza senza farsi troppe domande. Tuttavia non sempre si tratta di qualcosa di naturale: dobbiamo sforzarci, costringerci, farci coraggio. Ci sono contesti in cui un atto di gentilezza non costa assolutamente nulla, è un gesto gratuito attraverso cui si fa qualcosa che l'altra persona non si aspetta di ricevere. Penso che, sia per gli adulti che per i ragazzi, la gentilezza sia un atto di coraggio che richiede un'apertura da parte di chi lo compie: aprirsi significa automaticamente diventare più vulnerabile e, poiché tutti tendiamo a proteggere noi stessi, ecco che interviene la difficoltà cui ho appena accennato e che credo colpisca in modo analogo adulti e bambini. Si tratta, in definitiva, di superare questo senso di incertezza e di goffaggine.

Wonder ha rappresentato senza dubbio un successo planetario e, immagino, inatteso. Quello che colpisce tuttavia nella tua intera produzione è la capacità di cambiare registro a ogni lavoro, in modo da riuscire sempre a misurarti in maniera autentica con il mondo dei bambini e dei ragazzi. Si tratta di un’abilità naturale o è frutto di ricerca e studio? Quanto tempo dedichi, inoltre, alla progettazione quando un’idea si fissa nella tua mente e un nuovo personaggio chiede di essere raccontato?
Devo dire che le cose cambiano da libro a libro e da progetto a progetto. Nel caso di Wonder non saprei nemmeno dire esattamente perché, ma il personaggio di Auggie mi è apparso completamente definito e formato, un po’ come Atena da Zeus: è arrivato ed era già completo, inclusa la sua voce. Ho quindi iniziato a scrivere prima ancora di fare ricerche, senza nemmeno sapere se sarebbe diventato un libro o quale tipo di direzione avrebbe preso il progetto. Poi, una volta messo a fuoco il fatto che si sarebbe trattato di un libro, ho iniziato le ricerche su tutte le patologie e le deformazioni facciali. Nel caso del romanzo Pony le cose sono andate in modo analogo: avevo il protagonista Silas molto chiaro e ben definito, faceva parte di me sin dall’inizio. Tuttavia ho dovuto interrompere la fase di scrittura molto presto, per mettermi a fare ricerca: trattandosi di un romanzo storico, dovevo conoscere alla perfezione il periodo in cui avevo deciso di ambientarlo, per immergermi totalmente nella storia in un secondo momento. Per quanto riguarda la capacità di parlare con la voce di un ragazzo di dodici anni, non so se sia un talento naturale o se arrivi da altre forme di apprendimento. Forse c’entra il fatto che sono la mamma di due ragazzi che a loro volta sono sempre stati circondati da amici e quindi li ho frequentati molto. Non so esattamente per quale motivo, ma so di riuscire a parlare la lingua dei ragazzi.

Accanto alla storia di Auggie, ti sei dedicata nelle Wonder stories ad alcuni dei protagonisti minori: Charlotte, Christopher, Julian. Quale di queste storie hai avuto l’urgenza di raccontare per prima e perché? Quale delle tre hai maggiormente faticato a raccontare? E a quale, per finire, vorresti dedicarti?
Desideravo tantissimo raccontare la storia di Julian, il bullo, a cui non ho dato troppo spazio in Wonder perché il protagonista doveva essere Auggie ed era su di lui che dovevo concentrarmi. Tuttavia, volevo che i lettori conoscessero meglio la figura di Julian e, soprattutto, capissero cosa c’è dietro i suoi atteggiamenti da bullo. Quando uno scrittore mette in scena un personaggio, sa che cosa lo muove. Io ero consapevole delle motivazioni di Julian e ho voluto raccontare la sua storia pregressa, appunto per dare più spazio al suo personaggio, cercando di far capire perché fosse diventato un bullo, perché si comportasse in modo così crudele. Credo di essere giunta alla conclusione che il suo comportamento fosse dovuto alla paura che lui provava nei confronti di Auggie. Non entrava in relazione con lui perché non avrebbe saputo come farlo; la sua unica chiave d'accesso ad Auggie era la crudeltà. Julian non poteva nemmeno essere aiutato dai genitori, che a loro volta non avevano gli strumenti per farlo. Perciò, quando ho scritto la sua storia, ho introdotto il personaggio della nonna, che si accorge delle difficoltà del nipote e, senza giudicarlo, lo vuole aiutare, perché capisce che se nessuno gli dà una mano a invertire la rotta, allora sarà destinato a diventare una brutta persona da adulto. Volevo che fosse chiaro il messaggio che non è mai troppo tardi: a maggior ragione, a dodici anni si può ancora intervenire. Mi interessava raccontare la storia di Julian anche per redimerlo e per far passare l'idea che non bisogna identificarsi con i propri errori per tutta la vita. Charlotte l'ho voluta raccontare perché mi fa veramente ridere, è un personaggio buffo a cui sono molto affezionata. Christopher, poi, offre una prospettiva unica sul personaggio di Auggie, perché sa cose che risalgono a prima di quel che accade nel romanzo. In futuro mi piacerebbe moltissimo raccontare il punto di vista di Via, la sorella di Auggie, che mi piace molto e che secondo me ha una storia interessante da mostrare. Poiché comunque potrebbero esserci altri personaggi su cui varrebbe la pena soffermarsi, penso di procedere come ho fatto la prima volta nelle Wonder stories e di occuparmi di tre diverse figure.

Auggie ha i problemi che sappiamo, Via è sorella di un bambino con una disabilità importante ed è, per forza di cose, un po’ trascurata e, da adolescente, attraversa una fase della vita piuttosto complessa. Ma i genitori di questi due ragazzi trovano il tempo per essere felici?
Bisognerebbe chiederlo a loro. Tuttavia, credo che sia molto difficile, nel ruolo di genitori, non sentirsi in qualche modo imbrigliati nella felicità o infelicità dei propri figli. C’è un modo di dire in inglese secondo cui la felicità dei genitori si misura sull’infelicità dei figli. O ancora si dice che essere genitore significa vivere con il proprio cuore cucito sulla manica della giacca per tutta la vita. Io immagino che i genitori di Auggie e di Via siano esattamente così: non possono impedirsi di essere estremamente infelici nelle giornate difficili dei figli e al tempo stesso sentono il cuore scoppiare di gioia quando invece è una giornata buona per i loro ragazzi.

La trasposizione cinematografica del romanzo è stato un valore aggiunto per il successo di Wonder oppure no? Sei stata coinvolta nella sceneggiatura? Cosa hai maggiormente apprezzato e cosa invece, nel caso, non ti ha convinta fino in fondo?
Non ho partecipato alla sceneggiatura. Ogni tanto capitava che il terzo sceneggiatore, che era anche il regista, mi chiamasse per confrontarci su alcune idee. Quindi ho detto la mia su qualche battuta del film. La produzione ci teneva molto che io apprezzassi la pellicola e che mi piacesse; quindi, mi hanno comunque coinvolta il più possibile. Fra le cose che io forse avrei fatto in modo diverso, se avessi avuto più voce in capitolo, ce n'è una che riguarda il modo con cui sono state rappresentate le caratteristiche facciali di Auggie. Nel libro e nella mia immaginazione, ma anche nella realtà, le differenze di Auggie, rispetto a un volto non affetto dalla malattia che l’ha colpito, sono estremamente pesanti, molto marcate. Nel film, il trucco avveniva con protesi applicate sul viso dell’attore che interpretava Auggie – un gran bel ragazzo, tra l’altro – e perciò non era possibile essere fedeli al libro. Quando sono arrivata sul set, il primo giorno, queste decisioni erano già state prese e quindi il mio parere non è stato richiesto. Se fosse stato per me, avrei voluto una rappresentazione più fedele, ma capivo anche che comunque il film doveva parlare a moltissime persone e forse una parte del pubblico avrebbe avuto difficoltà a trovarsi esposto per due ore, su uno schermo gigante, a un'immagine più realistica e più marcata. Si tratta in realtà di un confine molto sottile; sono comunque convinta che la produzione abbia preso le decisioni che ha preso per i giusti motivi ed è stato fatto tutto ciò che si doveva fare per rendere il film commercialmente valido. Inoltre, secondo me, è stata realizzata una buona storia, che è anche un racconto molto commovente.

Se Auggie e Silas – il protagonista di Pony – si incontrassero, cosa si direbbero secondo te?
È una bellissima domanda! Dunque, Silas è un ragazzino che vede i fantasmi un po’ dappertutto, è preparato a tutto ed è anche un tipo molto solo, a cui piacerebbe molto avere un amico. Credo quindi che vedrebbe Auggie immediatamente come amico. Penso che i due ragazzi potrebbero diventare istantaneamente migliori amici uno dell’altro. Direi proprio di sì.

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