
Di Roberto Livi si sa molto poco, è un simpatico signore pesarese che ha scritto due romanzi per Marcos y Marcos anche se nella vita non ambisce a diventare uno scrittore. Ha una passione per la musica ma come il protagonista del suo ultimo libro ha in testa una canzone che non riesce a finire. Una sola. Mentre aspetta che gli arrivi l’ispirazione, ci ha concesso un po’ del suo tempo e noi lo abbiamo usato per fargli qualche domanda nello splendido bailamme del Salone Internazionale del libro di Torino, edizione 2021.
Uno dei temi se vogliamo ricorrenti nel tuo Solo una canzone è il senso di colpa, lo prova il protagonista nei confronti di Quercia che a sua volta si sente in torto per aver trattato male il cane, Ave in qualche modo non si perdona di sprecare la sua vita e la sua laurea... e non sono gli unici, mi sbaglio?
No, direi che il senso di colpa è uno dei motori fondamentali del romanzo. È all’origine di una serie di circostanze che portano il protagonista a vivere una vita, sia lavorativa che personale che lui in realtà non ha scelto. Sono circostanze apparentemente casuali ma molto probabilmente dovute alla sua debolezza, alla sua incapacità di saper affrontare le cose.
Sembra mancare nel romanzo un personaggio “forte”, un po’ come se vivessero tutti sottotono. Questo senso di “fallimento” che riguarda un po’ tutti ha un significato?
Ho provato a rappresentare il fallimento del protagonista che è un uomo che fa una cosa per cui non è vocato - e che fra l’altro è uno dei mestieri più faticosi del mondo -, vive con una donna che non ama e dalla quale non è amato, si accontenta di un equilibrio così, di un “voler bene” e lo vive come una condizione inevitabile. Io ho voluto contrapporre lo stato di insoddisfazione di queste persone alla via di fuga del protagonista che è questo suo desiderio di comporre una melodia. Ho provato a contrapporre l’idea della musica - quindi la forma di comunicazione più astratta, perché la melodia è la cosa più misteriosa fra tutte le forme d’arte, la più indefinibile - a qualcosa di estremamente concreto che è il lavoro quotidiano, che tende ad opprimere quest’uomo. Alla fine della giornata (che è sempre molto faticosa e priva di soddisfazioni) lui prende su la chitarra che tiene in un angolo della trattoria e suona, sempre a caccia del ritornello. Che è una cosa terribile, mancano sempre queste quattro battute e sembra che non sia mai il momento giusto.
Quindi tu parli della musica, non delle parole?
Sì, sì: è la musica che sfugge, perché alla fine le parole, che sono importantissime in un libro, nella canzone secondo me sono qualcosa di secondario, la cosa che fa grande una canzone è la melodia. Un pezzo è composto da due parti, c’è una strofa, di solito le prime quattro battute, poi c’è la seconda parte che deve essere collegata con la strofa, come se fossero una domanda e risposta e il ritornello. Il nostro protagonista è riuscito a scrivere soltanto la strofa, le quattro battute che secondo lui sono anche molto belle, e per quanto ci provi non riesce a scrivere il ritornello. Nonostante questo suo fallimento il desiderio di riuscire in questa impresa lo mantiene vivo, per lui è come una fuga, alla fine della giornata di lavoro quando resta lì da solo prova e pensa. E prova, continua a provare.
La domanda classica che non può mancare: quanto Roberto c’è nel nostro ristoratore anonimo?
Nel personaggio c’è davvero poco, ma abbiamo un elemento fondamentale in comune, il desiderio di comporre una melodia. È una cosa che ho in testa fin da piccolo, un desiderio molto forte, ma la natura crudele non mi ha dato il talento per riuscirci, quindi niente, ci ho provato tante volte e non ci sono mai riuscito, poi ho avuto degli anni in cui non ci ho più provato ma non demordo.
Quindi possiamo paragonare i clavicembali che tu costruisci al ristorante del libro?
Ma sì, io immagino che qualcosa di vero ci sia, perché io li costruisco ma non li so suonare, li costruisco per dei musicisti che poi li suoneranno, a me rimane il desiderio ma non ho il talento per comporre e anche dal punto di vista dell’esecuzione non ci siamo, nel senso che io suono solo per i parenti più stretti e per gli amici, ma basta.
In un’intervista in realtà tu hai detto di averla, una canzone...
No, in effetti non ce l’ho la canzone, ne ho solo il desiderio. Ho tanti tentativi come ti dicevo, questo fallimento è una cosa che ci tenevo a descrivere. Alla fine però diventa una possibilità, mi ha salvato tante volte nella vita. Mi ha dato l’opportunità di desiderare.
Secondo te raggiungere il risultato significa non avere poi più un motivo per andare avanti? Non si può semplicemente cambiare obiettivo?
Nel caso specifico del protagonista e forse anche un po’ per me, questo obiettivo non è soltanto irraggiungibile ma è la cosa più desiderabile, talmente desiderabile da essere diventata irraggiungibile. Questo è il punto: perché è così desiderabile? Il protagonista dice che lui non vuole scrivere la canzone per avere successo, non gli interessano milioni di persone che lo ascoltino, vorrei scrivere una canzone che piaccia a me, che è una cosa difficilissima, fare qualcosa che soddisfi te stesso, che ti emozioni fino a farti venire la “carne a capponi”, la pelle d’oca.
Questa cosa mi fa venire in mente lo spettacolo di Massimo Ranieri intitolato Canto perché non so nuotare… Tu scrivi perché non sai comporre?
Mah, forse qualcosa di vero c’è, però devo ammettere da scrittore quasi esordiente che nella musica c’è una cosa davvero straordinaria, questa cosa che fa venire i brividi e che va oltre ai pregiudizi. A me succede questo con la letteratura, se ho un pregiudizio su uno scrittore, magari mi è antipatico - dico un nome a caso perché è bravo, Baricco - io lo so che è bravissimo ma siccome mi è antipatico (è un esempio, non mi riferisco davvero a lui) se mi capita di sfogliare un suo libro anche se potrebbe piacermi non mi piace, perché il pregiudizio è più forte della bellezza del libro. Invece con la musica non mi succede. Anche se un cantante mi è antipatico, certe canzoni mi fanno comunque venire i brividi. L’incontro fra la melodia e le parole è il massimo della comunicazione.
Roberto Livi come diventa scrittore?
Ho iniziato a scrivere attraverso una scuola di scrittura, mi sono iscritto a una scuola perché era un periodo un po’ così, di depressione. Io abitavo a Pesaro ma poi ho sentito di una scuola a Bologna con corsi tenuti da Paolo Nori che io ho sempre ammirato, quindi niente ho deciso di andare lì a fare questo corso. Io inizialmente mi sono iscritto come auditore, cioè la mia idea era di ascoltare, ero timido, non avevo intenzione di scrivere, non ero neanche l’unico con quell’idea. Solo che poi ci ha dato un primo compito, dovevamo descriverci in quattro righe. Allora va bene che non volevo scrivere un romanzo, ma almeno quattro righe lo dovevo fare, ce la potevo fare. Poi queste quattro righe sono stato costretto a leggerle davanti a 25 persone ed è stata un’emozione enorme. Una cosa sconvolgente, per la prima volta mi sono trovato a parlare di me attraverso uno scritto, e lì evidentemente è scattato qualcosa. Anche la reazione degli altri, avevo scritto quattro righe divertenti e quindi mi è venuta voglia di proseguire e ho fatto anche gli altri “compiti” e sono andato avanti…
Sempre in una tua intervista letta in Rete si parlava di una scrittura ironica, in realtà io l’ho trovata più una scrittura in cui la battuta, il paradosso sono come un salvagente per superare la tristezza del racconto. Cosa ne pensi?
In effetti non c’è l’ironia propriamente detta, io mi ispiro molto ai racconti che facevano il mio babbo e la mia mamma, sul Colle san Bartolo c’erano ancora delle case quando ero piccino, case di contadini e la sera quelli che ancora non avevano il televisore si riunivano e si raccontavano le cose così, esagerandole un po’ con un po’ di malinconia e ridendoci anche su.
Che libro ha sul comodino Roberto Livi?
Fa ridere forse, ma sto leggendo Orgoglio e pregiudizio, ha dei dialoghi strepitosi.