
Qual è, se c'è, il file rouge che lega questi tuoi 15 anni di scrittura?
Direi la voglia di continuare a scrivere, la convinzione che il libro più bello che scriverò sarà il prossimo e la sensazione che la mia scrittura sia veramente migliorata negli anni, che quello di cui dispongo oggi, dopo quindici anni di pubblicazioni, sia una voce finalmente mia, riconoscibile.
Nei tuoi lavori affronti spesso, come il primo Salvatores, il tema della fuga. Da cosa fuggono i tuoi personaggi e dove tendono?
E’ vero, la fuga è uno dei miei temi ricorrenti, anche se poi i miei personaggi fuggono, in primo luogo da se stessi, e poi da un sistema esistenziale che non sentono proprio: fuga che spesso li porta anche fisicamente molto lontani ma alla fine sempre ossessionati dalle proprie paranoie, che li seguono, come un’ombra cattiva, ovunque.
Hai affrontato vari stili nei tuoi romanzi, spaziando dal noir al poliziesco, dal romanzo storico a quello intimista. C'è un abito che senti più comodo quando scrivi?
In verità quando mi metto a scrivere non mi pongo il problema su come racconterò la storia che ho in mente (e che di solito mi ossessiona), cioè non dico “adesso scrivo un noir” o “adesso scrivo un romanzo di formazione” o “un’educazione sentimentale”, ma più semplicemente mi metto a scrivere e basta: i “generi” letterari sono facili (e spesso anche utili, perché negarlo) scorciatoie per critici letterari, librai, editori, eccetera, e gabbie più o meno dorate per gli autori.
Dai l'impressione di essere uno scrittore 'vecchia maniera', timido e un po' schivo. Come si relazione il tuo personaggio pubblico con la necessità del mercato editoriale attuale che chiede agli scrittori di essere più piazzisti che narratori?
E’ vero, è così, infatti una delle cose che mi piaceva dell’idea di essere uno scrittore era di aver scelto come proprio modo di esprimermi un mezzo che mi dava la possibilità di stare “nascosto”: io scrivo e poi il mio libro diventa la mia parte “pubblica”; è il libro che dovrebbe farsi “vedere”, leggere, non lo scrittore. C’è questa frase di Luigi Bernardi (tratta dal suo libro più bello, il romanzo Senza luce) che esprime esattamente il mio pensiero al riguardo: “Agli scrittori si chiedeva sempre più di curare il loro aspetto pubblico: dovevano farsi vedere… erano costretti a parlare invece che scrivere, a farsi ascoltare invece che leggere, obbligati a vivere un surrogato di mondanità invece di tenere in esercizio quel guardare incarognito le cose della vita che solo fornisce materia alla scrittura.” . Io, quindi, come arma di difesa nei confronti del mercato editoriale, continuo a “guardare incarognito le cose della vita”…
Nel tuo Generazione di perplessi i racconti sono legati da una sorta di "disagio del vivere" che mina l'esistenza dalle fondamenta. Come mai analizzi questo disagio, e quanto pensi sia diffuso e reale?
E’ un disagio che accomuna buona parte dei miei personaggi, sia dei racconti che dei romanzi, e penso che sia un disagio assolutamente reale, basta guardasi intorno, leggere la cronaca (e non solo nera) dei giornali, basta guardare tute queste persone che si sentono intrappolate dentro un lavoro che non amano, che per scelta non farebbero mai, ma che comunque fanno per tutta la vita, persone invischiate dentro famiglie che non sopportano: mogli che non amano, figli che detestano. I miei personaggi sono queste persone che decidono però che come stanno vivendo non gli va più bene e allora, in un modo o nell’altro, reagiscono.
Un racconto narra di uno scrittore esordiente molto deluso. Cosa ne pensi del sistema di "reclutamento" degli scrittori in Italia. Lo trovi onesto?
Il problema dell’editoria in Italia è che è un sistema chiuso (quasi ermeticamente), se sei fuori è difficilissimo entrare, se, per tua fortuna, capacità, intrallazzi, amicizie, riesci ad entrare, sono più le possibilità di essere ricacciato fuori che quelle di restarne dentro. Il talento, che dovrebbe essere alla base del “reclutamento” diventa invece un fattore, che spesso, non viene preso neanche in considerazione.
Che rapporto hai tu con la scrittura? La vedi come un lavoro o come un hobby? Consigli, "alla generazione di perplessi" di intraprendere questo percorso?
Scrivere è quello che avrei sempre voluto fare, e non è né un hobby né un lavoro, ma più semplicemente una necessità (difficilmente ti obbligano a fare lo scrittore), ed è in più, per me naturalmente, una cosa naturale: scrivo perché non posso farne a meno: è così, punto. Mi piace considerarmi una sorta di “raccontatore” di storie e la forma scritta è l’unica che conosco. Ma non lo consiglierei neanche al mio peggior nemico: anche se per me è la cosa più bella del mondo, ogni volta che arriva un mio nuovo libro (fresco di stampa, “profumato”, intonso) è sempre un’esperienza fortissima, e ogni volta come la prima: non ha prezzo.
I libri di Roberto Saporito