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Intervista a Romana Petri

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Romana Petri ha scritto molto, ma dalle sue parole traspare lo stesso entusiasmo di chi è all’inizio di carriera. E si tratta di un entusiasmo contagioso, che far venire voglia di ficcare il naso in una delle librerie di casa, prendere un libro e cercare tra le parole tutto quello che lei ha trovato negli anni tra le pagine delle sue letture. È, da sempre, una gioia leggerla e un piacere scoprire la sua opinione sul coraggio, la scuola, la scrittura e, perché no, la magia delle fiabe. L’abbiamo sentita proprio alla vigilia della XXXV edizione del Salone Internazionale del Libro di Torino. Ecco cosa ci ha raccontato.

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Trenta anni di carriera e oltre venti pubblicazioni all’attivo. Hai dichiarato: “I libri ci appartengono sempre meno, una volta che sono stati pubblicati”. Cosa perde e cosa guadagna uno scrittore dal momento in cui il suo ultimo romanzo arriva sugli scaffali della libreria?
Prendono il volo, se ne vanno. Li ho letti tante volte per revisionarli, ma da quel momento in poi non li leggo più. E quindi di loro mi rimane un ricordo sempre più vago. Non è così con i libri degli altri, che ricordo benissimo anche ad anni di distanza. Ci si guadagna lo spazio libero per il libro successivo. La mente sgombra.

Rubare la notte è un titolo evocativo che nasce dal doppio significato di un verbo francese. Vuoi spiegare meglio la genesi di questo titolo?
Ho amato molto Volo di notte e un po’ a quello volevo rifermi. Mi ripetevo: volare la notte, volare di notte… E poi ho osato. Che cosa volevano i piloti di quegli anni se non superare la notte per ritrovare le luci del giorno? E allora mi sono detta: osiamo, che sia Rubare la notte.

Come sei arrivata alla scelta di occuparti di un personaggio tanto noto e altrettanto complesso come Antoine de Saint Exupéry?
Avviene con gli amori del passato, di quando eravamo molto giovani. È un autore del quale conosco ogni parola. E che ho amato molto. Volevo anche liberarlo un po’ del fardello della magnifica fiaba che lo ha completamente fagocitato.

Saint Exupéry è lo scrittore che rimpiange l’infanzia, e lo fa fin da bambino. Ma in questo modo la sua vita non è stato una continua perdita della magia in ogni fase della vita, a partire appunto dall’infanzia?
Lui la rimpiangeva anche da bambino, perché quella magia l’aveva resa così grande che al pensiero di doverla perdere gli sembrava di impazzire. Ha lottato contro il tempo, proprio come una fiera, per fermarla. Si è illuso. Alla fine, però, l’ha anche fatta sua per sempre. Molto “saudadosamente”.

Cos’è il coraggio per Saint Exupéry e cos’è invece per te?
Il suo coraggio, da giovane, era un po’ quello di tutti. Il gesto atletico, il gesto scavezzacollo. Poi ha capito che il coraggio era compiere fino in fondo il proprio dovere, anche a costo della vita, purché ritenuto giusto e necessario. Era il suo nuovo umanesimo. Quel senso di fratellanza e collaborazione tra gli esseri umani. La mia personale visione del coraggio è antica. Un po’ epica, legata anche all’idea di vendetta. Oggi Ulisse andrebbe in carcere e ai Proci farebbero solo una multa. Sento il coraggio più animalesco che umano. Ho spesso sognato di essere un lupo.

Sempre a proposito di Saint Exupéry, perché secondo te Il piccolo principe ha avuto un successo tanto grande da fagocitare quasi il suo autore? Cosa trasmette al lettore?
È una fiaba magnetica e cangiante. Ti si trasforma continuamente sotto gli occhi. La leggi e cambia. È un libro in perpetuo movimento. Non si ferma mai. Ecco perché lo leggono ancora, perché viene ossessivamente comprato. Il lettore non lo sa. Ma appena lo tocca entra in quel vortice.

Tu sei insegnante di francese. Come riesci a conciliare la tua professione con la passione per la scrittura, che reclama impegno e dedizione? Come organizzi le tue giornate in funzione di entrambe?
Ho insegnato il sufficiente e poi ho deciso di cambiare vita. Adesso mi dedico alla scrittura, alla traduzione, alla lettura, alla critica. Ho ritrovato molto entusiasmo. Insegnare è un mestiere che oggi consuma molto. La scuola è cambiata. È più burocrazia che appassionate lezioni. Anzi, direi che ai Dirigenti le appassionate lezioni proprio non interessano. E così ho voltato pagina. Per una volta ho fatto come i rettili, mi sono liberata della vecchia pelle.

Come procedi, in genere, quando cominci a delineare una storia? Segui un processo di progettazione narrativa strutturato o ti lasci guidare dalla sana incoscienza dell’ispirazione?
Un’idea arriva all’improvviso, a volte in una frazione di secondo. È una specie di apparizione che poi scompare e sta a te ricostruire. Per quel che mi riguarda, io non delineo nulla. Ho il vago ricordo di quel momento e da lui mi faccio guidare. Alla fine, però, non era mai così vago. Ma me ne accorgo dopo.

Qual è il tuo rapporto con l’editing che viene fatto ai tuoi testi? Lo subisci o riesci a fare tesoro dei suggerimenti che ti vengono dati?
Sulla lingua non discutiamo mai. Ci lavoro talmente tanto prima di consegnare un libro. Per me è il fondamentale di un romanzo. Un’ ottima storia con una brutta lingua non mi interessa. Se invece il romanzo è scritto bene, posso anche farmelo raccontare dall’inizio alla fine. Avrò sempre voglia di leggerlo. Però faccio pasticci con le date. Ogni volta che comincia a leggere chi lavorerà con me, gli dico sempre: Attenzione alla cronologia!

Quali letture hanno ispirato il tuo percorso come narratore? E quale libro hai sul comodino in questo momento?
Sono tante e sono anche continuamente cambiate nel corso degli anni. Prima erano i francesi, poi gli spagnoli, poi il Sudamerica, poi l’America del profondo sud. Sul comodino ho Il passeggero del grande Cormac McCarthy.

Hai già un nuovo progetto al quale stai lavorando?
Ne ho sempre più di uno. E qualcuno anche già pronto.

I LIBRI DI ROMANA PETRI