
Anni Ylävaara, in arte Rosa Liksom, è molte cose: scrittrice, artista, viaggiatrice… Ma dopo averla incontrata e aver potuto scambiare anche solo poche parole con lei, si capisce che è soprattutto una cittadina del mondo. Una donna dalla personalità coinvolgente ed energica, che conserva ancora gli ideali sviluppati in giro per l’Europa, nella sua gioventù passata nei collettivi studenteschi, da squatter, da attivista. Ma anche per una cittadina del mondo le radici sono importanti, quelle personali, familiari, ma anche quelle di una generazione. Ce lo racconta con il suo nuovo romanzo, presentato insieme a Iperborea in occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino 2023. Ci ha dato appuntamento per una chiacchierata nella hall del suo albergo, in prossimità del Lingotto. Impossibile non riconoscerla! Grandi orecchini ricamati in rosa acceso, stivaletti a quadri multicolor: una pennellata di allegria per ravvivare i toni spenti della mattinata uggiosa. Fuori piove. A Rosa piace la pioggia, ci confessa. Si è informata sul meteo prima di arrivare in città e dato che non era dei migliori, si è attrezzata con un bel impermeabile con cui poter visitare comodamente Torino. Ci sediamo su un comodo divanetto blu per porle qualche domanda e conoscere meglio una delle più famose scrittrici e artiste finlandesi del momento, tradotta ad oggi in ben 17 Paesi. La foto è di Pekka Mustonen.
Alcuni scrittori affermano che scrivere è un’intima necessità, una sorta di catarsi personale; altri invece vogliono creare qualcosa per raggiungere un’audience ben precisa, comunicare un messaggio o intrattenere. Che tipo di scrittrice è Rosa?
Appartengo al primo gruppo. Io devo scrivere, allo stesso modo di un affamato che deve mangiare per saziarsi. Adoro scrivere, quello dello scrittore è un lavoro fantastico che permette di creare nuovi mondi. Scrivo moltissimo e in realtà pubblico solo una piccola parte del mio lavoro.
Non sei solo una scrittrice. Il tuo passato è caratterizzato da diverse forme di arte: la pittura, cortometraggi e documentari, hai anche realizzato libri per bambini. Quando hai una nuova idea per un progetto, come scegli il mezzo più adatto per realizzarla?
In realtà non ci rifletto più di tanto. Quando ho una nuova idea so già esattamente cosa andrò a fare. Qualche volta capita che dopo la pubblicazione di un libro, decida di realizzare un documentario sullo stesso argomento, con un approccio alternativo e sfruttando un diverso punto di vista. Può avvenire anche il contrario: da un documentario può nascere l’ispirazione per un libro. È un processo che avviene con naturalezza, senza forzature.
La storia ha un ruolo cruciale nei tuoi romanzi e trova sempre il giusto equilibrio con la parte di finzione. Decidi fin dall’inizio quanto spazio lasciare alla tua immaginazione e quanto invece ai fatti reali? Quali fonti storiche preferisci consultare?
Quando inizio a scrivere ho alcune idee in mente, ma mi affido al mio subconscio e non ci rifletto eccessivamente, semplicemente scrivo. Solo in un secondo momento, quando inizio a rivedere il tutto, torno ad affidarmi alla parte razionale. Nel mio caso il processo di editing è abbastanza complesso e richiede diverso tempo, perché tendo a scrivere molto e quindi alla fine è inevitabile dover togliere e spostare intere parti prima che il romanzo sia pronto. La prima cosa che faccio è crearmi un solido background sull’argomento che andrò a trattare, leggo più testi possibile riguardanti quell’epoca, guardo molti film, cerco documenti e foto del periodo. Solitamente evito la narrativa. Consulto anche tesi scritte in merito. Ad esempio, per La moglie del colonnello ho letto molti trattati di psicologia per comprendere meglio concetti come aggressività e violenza coniugale e come essi si evolvano. Più raramente mi affido alle testimonianze, devono essere scritte molto bene perché me ne serva. È successo nel caso di Scompartimento n°6. Possono passare anche due o tre anni prima che inizi a scrivere. Quando sento di essere abbastanza padrona dell’argomento da non dover ricercare continuamente informazioni, ma ho tutto quello che serve nella mia testa, ecco, solo allora posso iniziare a scrivere. Da quel momento, il processo di stesura procede in modo abbastanza veloce.
In Al di là del fiume hai scelto di ambientare ancora una volta una tua storia in tempo di guerra. La percepiamo sullo sfondo come una presenza costante durante la fuga dei protagonisti, la incontriamo più da vicino nei campi dei rifugiati in Svezia e durate i raid delle truppe tedesche in ritirata. Sei riuscita a tratteggiare un ritratto di una situazione molto complessa dal punto di vista di una bambina…
Ho scelto un’ambientazione storica ben precisa per il romanzo ma i temi trattati sono senza tempo e universali. La guerra, i profughi, il dislivello economico sempre più netto tra ricchi e poveri, la diffidenza nei confronti della democrazia. La mia scelta è ricaduta su questo periodo storico specifico perché è particolarmente importante per me e per la mia famiglia. Mia madre e i miei nonni si sono trovati a vivere in prima persona quella fuga verso la Svezia. Le ostilità tra Germania e Finlandia hanno coinvolto solo la zona della Lapponia. Prima che la guerra finisse, il regime prese la decisione di far emigrare i civili e le loro mucche verso la Svezia. Supponevano che il conflitto sarebbe terminato da lì a qualche settimana ma in realtà passò quasi un anno prima che i rifugiati potessero tornare alle loro case. Scoppiò il caos in Svezia, i campi profughi erano stati creati per accogliere persone per non più di due, tre settimane. Molte persone morirono per il freddo, specialmente i bambini, vittime di polmonite. È molto importante scriverne perché nessuno lo ha fatto, si tratta di un argomento tabù sia per i finlandesi, sia per gli svedesi. Qualcosa per cui provare vergogna, da dimenticare. Ma adesso, molti dei sopravvissuti ormai novantenni, ne vogliono parlare, vogliono ricordare e tramandare ciò che hanno vissuto. È successo lo stesso a me, con i miei parenti. Fortunatamente, alcuni studiosi negli anni Ottanta fecero un ottimo lavoro di documentazione sui campi in Svezia, riportando dove erano collocati, quante persone vi furono accolte, quante vi morirono. Intervistarono centinaia di persone. Ho potuto utilizzare questo materiale, oltre alle testimonianze dirette dei miei familiari.
Uno dei temi universali di Al di là del fiume a cui ti riferisci è senz’altro anche il rapporto tra uomo e natura…
La protagonista, una ragazzina di soli tredici anni, e gli altri personaggi intono a lei hanno questo rapporto molto stretto con la natura e con le sue creature, una vera e propria connessione. Volevo dare un’immagine chiara di cosa significhi far parte veramente della natura, senza pretese di dominazione. Questa storia è stata la giusta occasione per parlarne. Nel mondo occidentale, in paesi industrializzati e fortemente dipendenti dalla tecnologia e dall’intelligenza artificiale, le persone sono spesso vittime di depressione e altre problematiche mentali. Abbiamo tutto eppure non siamo felici. Una conclusione a cui sono arrivata è che senz’altro la perdita di connessione con la natura, con gli animali e con le altre persone abbia un ruolo cruciale in tutto ciò. Le persone sono sole, circondate da benessere. La protagonista è come mia zia e insieme agli altri personaggi, ispirati ad altri familiari o conoscenti, incarna un tempo in cui eravamo più vicini alla natura, uniti, fisicamente e mentalmente più forti.
Tutti i dialoghi sono trascritti in forma indiretta. C’è una particolare ragione dietro questa scelta?
Questo perché chi legge è posto nella condizione di rivivere la vicenda insieme alla ragazza, mentre la ripercorre nella sua mente una volta terminato il viaggio. Volevo che il lettore percepisse la storia direttamente dai suoi pensieri. Lei non la narra verbalmente a nessuno. In questo modo risulta tutto più intimo.
Durante un dialogo tra Lise, una delle volontarie che aiutano i rifugiati, e la protagonista una frase mi ha molto colpita. La donna dice, rivolta alla ragazza: “Sei una ragazzina sana e carina, guarda che bella carnagione hai, sembri più una persona che una rifugiata”. Un’affermazione molto forte…
Sì, ed è ancora oggi così. Le apparenze influenzano le reazioni di chi accoglie i rifugiati. Chi ha una pelle più chiara viene accettato con più facilità. Anche nel momento del bisogno la società finisce per cadere vittima di questa visione superficiale. È come se il rifugiato perdesse lo status di “persona” e i diritti associati, in primis, quello di avere una casa.
C’è un argomento in particolare che vorresti trattare in un futuro romanzo, qualcosa che ancora non hai affrontato, forse perché troppo complesso o emotivamente sfidante per te?
Quando inizio un nuovo romanzo non mi soffermo a pensare a quali temi inserirò, la cosa più importante per me è definire a grandi linee la trama. Per prima cosa inizio scrivendo circa una cinquantina di pagine, una versione molto semplice della storia. Solo dopo inserisco i vari temi e ogni volta modifico di conseguenza ciò che ho scritto e lo riscrivo ancora e ancora. I vari temi si aggiungono in corso d’opera. Alcuni, come quello ambientale molto presente in Al di là del fiume, derivano dal mio passato di attivista.