
Rosa Maria di Natale è una giornalista professionista che vive e lavora a Catania. Dopo essersi già misurata con la narrazione grazie ad alcuni racconti pubblicati dalle riviste “Linus” e “Maltese Narrazioni”, pochi mesi fa ha esordito con il suo primo romanzo, edito da Ianieri. La raggiungiamo per porle alcune domande.
Da giornalista a scrittrice di racconti e romanzi quanto è lungo il passo?
È un nuovo cammino a tutti gli effetti. Non conosco la sindrome da foglio bianco ma se la scrittura professionale ti regala l’illusione di compiutezza e velocità, quella narrativa ti impone di prendere tempo; il testo di un romanzo vuole respirare a modo suo, ti tira per la giacca, cambia continuamente pelle.
Perché partire da un episodio di cronaca nera reale (il delitto di Giarre del 1980) per poi trasformarlo in un romanzo?
Perchè quella storia mi ha ferita e perché da cronista so bene che dietro i fatti che vengono divorati e digeriti il giorno stesso dai media e dai lettori, ci sono centinaia di aspetti essenziali che non saranno mai raccontati. Per esempio il ruolo della comunità o il ruolo delle famiglie in casi come quello al quale mi sono liberamente ispirata. Il silenzio dei giorni racconta una storia molto simile a quella dei due “ziti” di Giarre proprio perché certe storie si somigliano tutte, eppure è una storia inventata, originale; è una storia in qualche misura già nota per le dinamiche consolidate (omofobe e retrograde) nella Sicilia di quegli anni ma nel contempo nuovissima perché della provincia sicula scrivono in pochi.
Il tuo romanzo è ambientato nella stessa Sicilia in cui sei nata, cresciuta e tutt’ora vivi. Cosa del tuo vissuto personale è finito, magari trasfigurato, al suo interno?
C’è moltissimo, ovviamente. Non mi è stato necessario ricostruire nulla. Conosco molto bene quelle dinamiche da abitante in primo luogo, e da osservatrice dei centri che popolano il vulcano Etna. Mi è bastato questo per inventare Giramonte che nelle mie intenzioni è un mix di quei luoghi, Giarre compresa.
Rifiuto del diverso, omofobia, famiglia patriarcale e omertà sono alcune delle caratteristiche della Sicilia degli anni ’70 che hai raccontato. Quanto è distante la Sicilia di allora da quella odierna?
La Sicilia è cambiata moltissimo, ovviamente, ma non abbastanza. Oggi sono ancora visibili le tracce del patriarcato mentre il disprezzo per il diverso ha cambiato volto e modalità, ma ancora persiste. Purtroppo. Ma che le ragazze e i ragazzi che si amano tra loro camminino per strada a testa alta oggi è un fatto. È anche un fatto che non si sentano del tutto sicuri, né del tutto accolti.
Ne Il silenzio dei giorni il silenzio è protagonista non solo nel titolo ma in tutta la trama: sono le cose non dette ad improntare la vita dei protagonisti più di ogni altra cosa. Che rapporto hai tu con il silenzio?
Lo osservo da sempre con molto interesse. Dalle mia parti si usa dire ancora: 'A megghiu parola è chidda ca 'un si dici”. Ossia : “La parola migliore è quella che non si dice”. Una volta si traduceva in pratiche quotidiane di omertà. Ora per fortuna viene inteso nel senso dell’efficacia del silenzio rispetto a certe parole. In ogni caso nelle nostre esistenze - non importa se in Sicilia o altrove- i silenzi a volte sono più numerosi delle intenzioni dichiarate o dei fatti raccontati. A volte con esiti infausti.
Per professione e immagino anche per piacere scrivi. Sei anche una lettrice? Che tipi di libri è facile trovare sul tuo comodino?
Sono sempre stata soprattutto una lettrice, dal primo momento in cui ho imparato a decifrare parole e frasi. Soprattutto narrativa. Il mio comodino fa un po’ paura: da sempre funge da succursale della libreria principale di casa e accanto ad esso da sempre c’è un piccolo tavolino, e subito dopo uno sgabello, con pile di testi ‘urgenti’. Al momento c’è un mix di romanzi americani scritti da donne e di ottima narrativa italiana del Novecento, con qualche saggio sparso di narratologia.
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