
Radici calabresi e infanzia ligure, Rosella vive a Roma ma non ci si sente davvero pienamente a suo agio. Lavora da anni nel campo dell’editoria - quando l'ho incontrata per la prima volta era una efficiente addetta stampa - ma anche lì dà l'impressione di voler essere altrove, di guardare sempre l’orizzonte con un po’ d’impazienza. Forse nella scrittura troverà la sua dimensione, il suo approdo, la sua casa. Considerato come usa la penna, sarebbe un bene soprattutto per noi lettori.
La famiglia: il luogo dei sentimenti, ma anche un luogo di incomunicabilità e sofferenza. Perché l’hai scelta come ambiente per il tuo romanzo d’esordio?
Non credo che si scelga davvero quello che si vuole raccontare, non dipende da una decisione razionale. La famiglia è il perno anche del secondo romanzo che sto scrivendo… Ho provato a interrogarmi a posteriori su questa ossessione, e credo che tuttora la famiglia sia il centro della nostra società. Non parlo necessariamente della famiglia tradizionale, anche se nel mio romanzo è quella che rappresento. Trovo ridicoli i family-day e ogni ipocrisia che viene detta e fatta su questo argomento. Io intendo la famiglia come quel gruppo di persone che “vivono insieme”, di solito sotto lo stesso tetto ma non necessariamente, e che si amano di un amore potente, che sono unite da un legame di cemento, che pure è una condanna. Perché non esiste nessuna forma di amore che possa evitare le contraddizioni e le sofferenze delle relazioni umane, che fanno sempre, in qualche modo, cortocircuito. È difficile salvare gli altri dal dolore, proteggerli e non deluderli. È difficile assistere al dolore di chi ami se non puoi lenirlo, ed è quello che capita a Ester, con i suoi genitori: il padre immobile in modo irreversibile, malato terminale per un’intera vita, la madre sopraffatta da questa condizione, troppo schiacciata dalla sorte per riuscire a occuparsi attivamente di sua figlia. Spesso, l’angoscia per il dolore che prova chi amiamo, unita all’impotenza, si trasforma in rabbia. Anche e proprio verso chi amiamo.
Leggendo La stanza di sopra si percepisce una ricerca molto profonda, un’applicazione quasi feroce sulla qualità del linguaggio, sulla scelta delle parole. Quanto ti senti lontana dalla letteratura 'giovalilistica' che infesta spesso i romanzi d’esordio italiani?
Lontanissima. Non mi interessa, non mi affascina, non mi provoca godimento o emozione, che è quello che cerco nella lettura. Ha la sua dignità, il suo valore e la sua dose di fruibilità, ma non mi interessa nel modo più assoluto. Sono attratta da una letteratura che prova a proporre anche un linguaggio nuovo, un po’ come diceva Ingeborg Bachmann. La sua tensione narrativa e poetica fu rivolta sempre alla ricerca di un linguaggio diverso da quello comune, una lingua nuova attraverso la quale si potesse dire l’indicibile, cercare una forma di conoscenza che si avvicinasse alla verità. Non dico che la mia scrittura faccia questo, non vorrei mai peccare di presunzione. Ma non mi interessa la mimesi del linguaggio colloquiale, quello lo lascio appunto ai colloqui, all’oralità. Ricerco la bellezza, la ricchezza, la forza e anche la megalomania in una pagina scritta, un gioco con la lingua, un tentativo di sperimentazione, mai fine a se stesso, ma capace di potenziare la storia che si sta raccontando. È da questo tipo di letteratura che sono attratta.
Il tema dei disordini alimentari è spesso sulle prime pagine di tutti i giornali. Tu cosa ne pensi della polemica sui modelli estetici 'anoressici' forniti dalla moda e dal cinema e sulle politiche intraprese dai vari ministeri della Salute per combatterne l’influenza?
Non credo davvero che le persone che hanno disturbi alimentari siano condizionate dalla moda e dal cinema. O meglio: sicuramente l’esistenza della cultura della perfezione estetica o della ricchezza economica e della libertà sessuale e della varietà sentimentale non può essere negata ed è naturalmente nociva, ma non credo sia responsabile delle anoressiche e degli anoressici del mondo. Ester, tra l’altro, non è anoressica, ma ha un rapporto complicato col cibo in un periodo della sua vita, che è l’adolescenza. Io stessa ho avuto periodi in cui l’idea di ingerire qualsiasi cosa mi faceva venire la nausea e altri in cui sono ingrassata improvvisamente di 5 chili in 5 mesi, e in ognuno di questi casi c’erano delle mancanze, dei desideri irrisolti, delle sensazioni di inadeguatezza, delle prigionie mentali che non avevano nemmeno lontanamente a che fare con le passerelle e i canoni estetici. Ma non mi sono mai considerata anoressica o bulimica o quant’altro, ho sempre avuto un aspetto salutare e non ho mai perso o acquistato troppo peso. Ester è così. Non mangia a casa sua perché è sola, perché dovrebbe mangiare da sola, o con una madre sfiancata dalla sua stessa vita. Quello che le manca è la convivialità, l’idea del pasto come rito, come occasione di riunione della famiglia. È per questo che, a casa della sua amica, lei mangia, ed è affascinata dal modo in cui il padre di lei tratta il cibo. Glielo offre come segno di accoglienza, di accettazione, in qualche modo come forma di amore. E lei mangia. Se davvero esistono individui che si fanno condizionare dai canoni estetici, in realtà sono individui che hanno delle problematiche non risolte: dico una banalità, ma è molto difficile poter intervenire su questo a livello ministeriale…
Come giudichi la tua esperienza al 61esimo Premio Strega e cosa ne pensi in generale dei premi letterari italiani?
Il bello di quest’esperienza sono state le relazioni con gli altri scrittori partecipanti, con cui si è creata una atmosfera di complicità, solidarietà. Alle interviste sembravamo tanti maturandi in attesa del turno d’esame… Per me è stato bello conoscere queste persone, credo sia questo il valore aggiunto che mi ha dato il premio. Cosa credo dei premi letterari? Di quelli più famosi – non dico nulla di nuovo – credo, anzi so, che sono una partita tra editori, dove il libro e l’autore non contano nulla. Una campagna elettorale inutile dove non possono vincere se non i grandi gruppi, che tra i votanti hanno più affiliati. Per un autore è frustrante, ma è uno dei metodi, forse uno dei più faticosi ma anche uno dei più simpatici (si mangia benissimo, si fa amicizia), per farsi conoscere. È una forma di prostituzione, certo, ma ogni promozione lo è. Purtroppo. Inoltre, credo che i premi importanti tendano a non fare nessuna ricerca, ma è come se sentissero la necessità di adeguarsi al mercato. Se un esordiente o semiesordiente è in classifica, allora è giusto, anzi è necessario, che anche i premi ne prendano atto e lo inseriscano in posizioni di rilievo. Non servono a niente, insomma, da un punto di vista letterario, ma fanno vendere: è sempre il mercato l’obiettivo finale. Questo vale per i premi importanti, quelli piccoli forse fanno una ricerca maggiore, ma che visibilità hanno?
Quali sono gli autori ai quali guardi con maggiore attenzione? Hai qualche modello?
Mi sento debitrice nei confronti di Marguerite Duras, un modello di persona oltre che di scrittura. Amo Josè Saramago, Clarice Lispector, Agota Kristof, Magda Szabó, Ingeborg Bachmann e Thomas Bernard, António Lobo Antunes. Mi emozionano i libri di John Fante, ho amato le poesie di Carver anche più dei racconti... Di recente ho letto un libro straordinario: Schooling, di Heather McGowan, un’autrice americana poco più che trentenne, pubblicata coraggiosamente in Italia nella collana Greenwich di Nutrimenti.
Tu hai lavorato per alcuni anni negli uffici stampa di importanti editori italiani: come è questo mondo visto da entrambe le parti della barricata?
Ho fatto l’ufficio stampa solo di Newton & Compton, ma lavoro nell’editoria dal 2003. Questo ti aiuta sicuramente a conoscere i meccanismi con cui funziona l’editoria, e forse da un certo punto di vista può aiutarti a proporre il tuo lavoro (per esempio, mi ha suggerito l’idea di trovare un agente letterario, e così ho fatto, delegando a questa figura la proposta del mio romanzo). D’altra parte, penso che se facessi la barista starei meglio. Avrei meno ansie e meno pretese e meno perplessità e meno dubbi. Vivrei questa cosa solo come un regalo, perché non la capirei fino in fondo. Invece la capisco, e questa conoscenza in qualche modo profana la magia della pubblicazione, la inaridisce.