
È davvero un grande piacere per me quello di intervistare Samanta Schweblin, che seguo con attenzione sin dagli esordi e che considero una delle più importanti scrittrici sudamericane di oggi. Opinione non solo mia del resto, dato che nel 2010 è stata selezionata dalla rivista “Granta” tra i 22 migliori scrittori in lingua spagnola sotto i 35 anni. Ho finalmente l’occasione di incontrarla durante Più Libri Più Liberi 2019 e non me la faccio certo sfuggire. E poi è argentina - sebbene viva a Berlino - e con lei posso parlare a ruota libera di Buenos Aires davanti a un caffè, uno dei miei sport preferiti.
Insomma, cosa c’entra tuo padre con il tuo romanzo Kentuki?
Sei arrivato preparato! L’idea mi è venuta in vacanza a Buenos Aires perché già vivevo a Berlino. Mi sono chiesta perché un dispositivo così semplice non fosse mai stato inventato. Alla base dell’idea dei kentuki c’è una tecnologia quasi già sorpassata. Quando ho raccontato questa idea a mio padre mi ha sorriso immediatamente e mi ha detto di brevettarla subito per fare un sacco di soldi prima che ci arrivassero gli imprenditori cinesi. Io però sapevo quanti soldi e tempo richiedesse brevettare un’idea e quindi non ho voluto imbarcarmi in questa impresa. A questo punto mio padre esterrefatto mi ha suggerito di fare almeno ciò che so fare meglio: trarne un romanzo. E da qui ho pensato a questa idea per la prima volta come un concetto letterario.
Da noi ci si chiede da sempre se sia nato prima l’uovo o la gallina. La connessione portata alle estreme conseguenze che viviamo oggigiorno è la causa o la conseguenza della solitudine?
Se dopo così tanti secoli non abbiamo ancora trovato una risposta su chi sia venuto prima tra l’uovo o la gallina, sicuramente non sarò io a rispondere a questa domanda. La tecnologia per come la utilizziamo oggi ci crea molta più solitudine che in passato. Non c’è contatto. La solitudine è infatti la mancanza del corpo, e senza il corpo molte cose smettono di accadere. Non mi sembra una buona idea pensare di risolvere la propria solitudine con dispositivi che non possono creare una presenza fisica reale. Nella mia esperienza personale però devo dire che, vivendo a Berlino da sette anni, senza social network difficilmente sarei riuscita a mantenere dei contatti con i miei cari, che invece sento vicini quotidianamente, nonostante il mio corpo non sia là con loro. Quindi la mia risposta è ambivalente. Tramite social posso dare buoni consigli, anche se i consigli sono sempre molto soggettivi, ma non posso dare un abbraccio.
I social network sono fondati su esibizionismo e voyeurismo. In questa continua alternanza artefatta non c’è il rischio di perdersi come individui reali?
Molto interessante, questa domanda. Io credo che esibizionismo e voyeurismo siano per così dire due movimenti centrifughi, verso l’esterno. Li rendiamo possibili, li creiamo per un’altra persona e non per noi stessi. Può essere pericoloso perché si è sempre portati a volere a tutti costi fare parte di qualcosa, di volere essere qualcosa che non si è. Più tentiamo di essere altro più ci allontaniamo da noi stessi, naturalmente. È una ricerca disperata della verità per sapere chi siamo veramente noi e chi siano veramente gli altri. Tutti sembrano molto felici sempre, nessuno si scatta una foto dopo che è stato licenziato o dopo che ha pianto per tre ore. Tutta questa felicità mostrata è quindi vera? E noi siamo veramente felici? Il voyeurismo ci dà l’illusione invece di spiare l’altro per capire se veramente sia felice: entrambi i processi sono sicuramente falsi e falsati.
Sotto tutta questa apparenza dei social è evidente che uno dei temi principali del libro invece sia il linguaggio. Che lavoro hai fatto sulla tua scrittura?
Il linguaggio è uno dei temi principali del libro ed è uno dei miei argomenti preferiti da trattare, da sempre. Lo affronto in una maniera differente però in questo romanzo: da una parte il lato formale con personaggi in varie città differenti che devono comunicare e farsi capire, nonostante le lingue e le culture diverse. Ecco perché abbiamo la figura del traduttore, per esempio. Il linguaggio crea mondi e dà vita a intere realtà però può creare anche malintesi e bugie. Il linguaggio può essere quindi anche molto pericoloso. Io ho tentato di mostrare come il linguaggio possa influenzare le nostre relazioni. La relazione tra padrone e contatto è come quando si parla con un peluche. Si trova poi il modo di comunicare, il linguaggio appare e il kentuki inizia a manifestare il suo pensiero. Mi interessava proprio spiegare questo processo per certi versi miracoloso.
A Berlino non ti manca il cielo gigantesco dell’Argentina?
Sì, certo, però Berlino dà tantissimo a uno scrittore. È una vera e propria torre di Babele, con tante culture che si mescolano. C’è tanto spazio nei luoghi e nella mente della gente. Si può respirare e c’è tanta libertà. Da sudamericana a casa non avrei mai potuto andare in un parco alle tre di notte in bicicletta, a Berlino posso farlo. Anche l’aspetto economico non è da sottovalutare, dato che a Berlino vivo con la metà dei soldi e quindi ho il doppio del tempo per dedicarmi alla scrittura.