
Ricordo ancora quel pomeriggio qualsiasi di qualche tempo fa, quando in una fatiscente libreria il mio occhio cadde su un libro pubblicato da Mondadori, Gorilla blues. Il titolo m’intrigava, e lo comprai non sapendo cosa avrei trovato. Tre giorni dopo recuperai tutti i libri che Sandrone Dazieri aveva pubblicato, il Gorilla era diventato una droga di cui non potevo farne a meno. Cuoco, fattorino, buttafuori e compagnia bella, Sandrone è stato questo e anche altro. Il suo passato, come sta per raccontarci, è stato fondamentale per la nascita del Gorilla. L’animale che si sposta ingombrante da città a città risolvendo casi, incontrando gente di ogni specie, fino a quando finalmente si innamora. E non finisce mica là: Sandrone Dazieri è molto di più che la saga del Gorilla...
Uccidi il padre è un thriller. Una svolta rispetto alla tua produzione narrativa. Come mai?
Prima di tutto perché era una storia che necessitava della forma del thriller per essere raccontata come la volevo. Secondariamente, perché volevo mettermi alla prova con un genere più complesso del noir, che è più lineare e segue sostanzialmente un personaggio nel suo sprofondare negli inferi. Credo, poi, di avere avuto una certa noia per lo standard del giallo italiano, rassicurante, con i commissari amanti della buona cucina e le loro pene amorose.
Altra novità del tuo ultimo romanzo è l’ambientazione romana…
Roma ormai è la mia seconda città, per via che scrivo serie per la televisione, e a Roma lavoro con i produttori e con il cast. Avevo voglia di raccontarla, per come la conosco io che vengo da fuori e la guardo con occhi “vergini”, mettendoci tutti i luoghi che conosco. Ho inventato solo l’albergo dove Dante e Colomba si trasferiscono a un certo punto mentre l’appartamento di Dante è esattamente quello dove ho abitato io per un po’ di tempo, prima di capire che era meglio per me stare in albergo.
I protagonisti di Uccidi il padre sono Colomba Caselli e Dante Torre, appunto. Due personalità complesse. Come si gestiscono personaggi così diversi e così problematici?
Non credo di avere una risposta esaustiva, posso solo parlare del mio metodo, che è quello di considerare i miei personaggi come parti di me. Anzi, loro sono me. Sono me se io fossi nelle loro condizioni, se avessi avuto la loro vita, le loro esperienze. In qualche modo, parlo di quello che conosco. Quando scrivo, sento le voci dei personaggi in testa, non devo sforzarmi di far loro dire cose. Se non è così, significa che ho sbagliato qualcosa nel processo di costruzione o nel plot.
Dopo il gorilla, un personaggio donna. Insomma, possiamo definire Uccidi il padre un romanzo che segna un vero e proprio cambiamento o solo una parentesi?
Non credo alle parentesi. Vedo il mio lavoro come un percorso, e adesso il cammino mi ha portato lì.
A tal proposito, che ne sarà di Colomba e Dante? Il finale del romanzo è aperto…
Per saperlo ti toccherà leggere il seguito. Lo sto scrivendo.
Ti ricordi dove ti trovavi quando per la prima volta hai pensato al Gorilla?
Alla sede della Telepress, un service editoriale dove lavoravo come amministratore unico. Pensavo al fatto che volevo un personaggio che rappresentasse la scissione esistenziale che provavo, sentendomi da un lato un “figlio del Leoncavallo”, uno che fino a pochi anni prima dormiva in stazione, e dall’altro il dirigente d’azienda che ero diventato. Ed è arrivato lui. Almeno, il suo primo spunto. Volevo non un vincente, ma un perdente, un eroe riluttante. Mi è servito per smettere di essere un dirigente e cominciare un mestiere nuovo.
I tuoi libri sembrano così realistici che c’è da chiedersi quanto di autobiografico ci sia nel tuo personaggio...
È qui che sta il bello, rendere indistinguibile realtà e fantasia. Diciamo che è il mio doppio, in un mondo dove invece di andare a fare il correttore di bozze sono andato a fare il buttafuori. E dove il sonnambulismo di cui soffrivo da bambino è peggiorato invece di migliorare. Di sicuro, condividiamo le stesse paure e le stesse voglie, insieme con i dubbi esistenziali e la rabbia.
Le città nelle quali si muove il Gorilla sono vissute con amore e con passione. Le descrizioni sono particolareggiatissime, soprattutto quella di Milano. Come riesci a renderle così vive? prendi appunti mentre passeggi? Scatti foto? PS: mi hai fatto innamorare di Cremona.
Non prendo mai appunti, lascio che sia il mio cervello a ricordare i pezzi che servono. Il resto lo invento, come il lunapark di Gorilla Blues. Una volta un mio lettore è andato all’indirizzo che avevo segnato come casa del protagonista e ci ha trovato un supermercato. Pensava che lo avessi fatto apposta, invece non sapevo neanche che ci fosse una via con quel nome. Questo perché non credo che un romanziere debba essere un giornalista o un geografo, ma un creatore di mondi. Certo, devono servire a rappresentare il nostro, a comprenderlo, ma senza essere impastoiati. L’unica cosa che ritengo necessaria è di esserci stato nei luoghi di cui parlo e di avere vissuto, in qualche modo, le atmosfere che rappresento. Molti miei colleghi agiscono in modo differente: si documentano con precisione, scattano foto… Massima libertà, ma quando puoi inventare non è meglio? Ovviamente, questo vale per un giallo o un thriller. Dovessi scrivere una storia vera agirei diversamente.
Due persone in una. Mentre il primo dorme esce allo scoperto il secondo. Ci si affeziona a entrambi, anche se il Secchione è più antipatico. Mentre scrivi ti è mai capitato di confonderti?
No, non mi confondo perché li ho ben precisi nella testa, parlano con voci differenti. Che sono entrambe la mia.
Ho letto in diverse tue interviste che hai lavorato anche come buttafuori al Leoncavallo di Milano, è vero? Com’era quel periodo? Ti è servito per preparare il tuo personaggio?
Al Leoncavallo non c’erano buttafuori, al limite il servizio d’ordine, dove io stavo saltuariamente. Ho fatto servizi d’ordine ai cortei e lavorato come buttafuori per qualche sera in un pianobar. Ma i miei lavori principali di quel periodo erano il cuoco avventizio e il facchino. Quel periodo per me è durato diversi anni ed è stato fondamentale per la mia crescita di essere umano, quindi come scrittore, quindi, in ultima analisi mi è servito anche per il Gorilla. Solo un paio di volte, però, ho narrato di fatti veri che mi erano capitati al Leoncavallo. Nel primo quando racconto lo sgombero dell’89, e la fuga lungo i tetti dopo che la polizia riuscì a sfondare (fui preso, anche se nel romanzo dico di no) e la descrizione del carcere di Gorilla Blues, che riprende la mia esperienza di quando fui arrestato nell’86 per un corteo antinucleare alla base di Montalto di Castro.
Nota dolente: La cura del Gorilla, parlo della trasposizione cinematografica. Mi ha un po’ deluso. Bisio, perfetto come Monsieur Malaussène, in questo caso mi sembrava fuori luogo. Tu chi avresti scelto al posto dell’attore italiano?
Sempre Claudio. Con l’esperienza di oggi, diciamo che avrei scritto una sceneggiatura diversa e avrei chiesto il controllo della messa in scena.
Ne La bellezza è un malinteso il Gorilla s’innamora davvero, la tua scrittura cambia in qualche modo si addolcisce e diventa meno ruvida, l’amore fa davvero questo? Te lo chiedo anche perché ho letto che ti eri innamorato.
Mi sono innamorato un sacco di volte, ma sposato solo una, con la donna che descrivo nel romanzo. No, non mi ha reso più buono, ma di sicuro mi ha costretto a fare i conti con altre parti di me.
Izzo–Montale, Camilleri–Montalbano, e potrei continuare all’infinito con gli abbinamenti famosi scrittore-personaggio. Non hai paura di rimanere anche tu incastrato con il Gorilla?
No. Anche perché ho smesso di scrivere di lui. Almeno per ora.
Quando hai capito che il cuoco/buttafuori non era il tuo futuro e che saresti diventato scrittore? Cosa ti è successo quel giorno, se lo ricordi ancora?
Questa domanda in apparenza semplice necessita di una risposta complessa. Prima di fare il cuoco o qualsiasi altro lavoro, avevo già in mente che volevo fare lo scrittore. L'avevo deciso con chiarezza a tredici anni una domenica sera nella vasca da bagno. Era il periodo nel quale si doveva scegliere a che scuola iscriversi dopo la terza media. Mia madre voleva che facessi il Classico e la stessa cosa consigliavano i professori, visto che ero bravo nelle materie umanistiche e pessimo in quelle scientifiche. Dopo quello mi sarei iscritto all'università e avrei scelto un mestiere in linea, magari il professore. Oppure il commissario di polizia (non scherzo, se ne parlava). Ma io avevo altre ambizioni. Niente mi dava più soddisfazione che scrivere i temi, che spesso venivano letti in classe (mi capitava sin dalle elementari) come esempio di buona scrittura. Questo perché leggevo moltissimo, e rielaboravo quanto leggevo secondo le necessità scolastiche. E sentivo che era quello che volevo fare, scrivere come lavoro, come stile di vita. In quella vasca da bagno pensai che se volevo scrivere avevo bisogno certamente di studio, ma soprattutto di spazio per esercitarmi, di solitudine lontano da casa. Mi inibiva la presenza di mia madre, che poteva chiedermi che cosa stessi facendo mentre scrivevo o che mi poteva chiedere di leggere quanto prodotto. Se esibire i temi in classe non mi dava fastidio, i miei tentativi di romanzo erano troppo personali e incompleti per poter essere mostrati. Ai tempi stavo cercando di scrivere le avventure di un gruppo di eroi modellato vagamente su Doc Savage e i suoi amici. Per cui mi informai su una scuola che mi portasse lontano da casa, e l'alberghiera faceva al caso mio perché era in provincia di Bergamo e dotata di collegio. La scelta gettò nella costernazione mia madre, che però non si oppose. Era convinta che il cuoco non fosse il mio lavoro, e aveva ragione, ma non le spiegai mai le mie vere ragioni. Mi sembravano troppo ambiziose. Ora, tra il volere fare una cosa e riuscirvi c'è una bella differenza. Da subito mi accorsi che i compagni di collegio possono essere molto più invadenti di una madre, e decisamente più crudeli. Non vi era posto dove potessi tirare fuori il mio taccuino e scrivere senza venire scoperto e deriso. Un po' alla volta rinunciai, anche perché non avevo ancora gli "strumenti" necessari a tenere in piedi un romanzo. Nemmeno un racconto. Dopo le prime pagine mi fermavo, notando l'enorme iato tra quello che scrivevo e quello che leggevo. E poi ero un ragazzo che scriveva del mondo degli adulti, che non conoscevo. Continuai a scrivere, però. Ovviamente i temi in classe, che anche all'alberghiera venivano letti per insegnare agli altri come fare (mi guadagnai il soprannome di Avvocato, perché parlavo e scrivevo meglio della media dei miei compagni), per il giornale scolastico, per concorsi di racconti inediti, poi su riviste politiche, poi come collaboratore del Manifesto (e già avevo 25 anni) ma rinunciai all'idea del romanzo. Non ero in grado, non avevo il tempo, non ci credevo abbastanza. Ma sapevo che il cuoco o il facchino o le decine di altri mestieri che avevo fatto non mi interessavano. Servivano giusto per mantenermi. Poi finalmente un mio racconto fu pubblicato dalla Mondadori, in un'antologia curata da Valerio Evangelisti per Urania (Tutti i denti del mostro sono perfetti) che mi disse che era piaciuto alla redazione e che se avessi avuto qualcos'altro, magari un romanzo, l'avrebbero letto volentieri. A quel punto capii che era un treno che dovevo prendere. Lo scrissi facendo le notti, lo mandai a Valerio, che lo mandò a Einaudi e Mondadori. Mondadori lo prese. Era il 1997, avevo 33 anni. Ne erano passati venti da quel giorno in cui avevo scelto, a mollo nell'acqua della vasca, di partire.
I libri di Sandrone Dazieri