
Solare, spiritosa, sempre sorridente, Sara Rattaro – una laurea in Biologia e in Scienze della Comunicazione, un premio Bancarella e venti romanzi pubblicati – è davvero un mix di energia e passione. Passione per la scrittura e per l’insegnamento delle tecniche narrative fondamentali per dar vita a romanzi intensi e di successo, come quelli scritti in tredici anni di attività. Generosa e disponibile, si presta volentieri a un’intervista nella quale si racconta a tutto tondo, come romanziera, come insegnante di scrittura creativa e, soprattutto, come donna.
Cominciamo dall’inizio. Che tipo di bambina eri: una a cui piaceva ascoltare storie che qualcuno ti narrava o una che amava leggerle? Il seme che sarebbe poi germogliato nel talento verso l’arte dello scrivere è stato piantato già nella piccola Sara o è arrivato più tardi?
Ero una bambina molto timida e diffidente, ma non insicura, come spesso accade invece per i bambini chiusi e riservati come ero io da piccola. In realtà, seguivo con molta determinazione tutto ciò che mi appassionava, però non amavo troppo espormi. Poi nell’isolamento della mia stanza mi divertivo a ballare e a cantare, come se una vena recitativa, che si è poi tradotta nell’interpretare attraverso la scrittura mille ruoli diversi, fosse già in embrione. Inoltre leggevo, leggevo davvero molto. Ho avuto la fortuna di crescere in una casa piena di libri, con una madre e un nonno avidi lettori; quindi, ho sempre dato alla lettura uno spazio di normalità e credo che questo aspetto mi abbia aiutato moltissimo. Mi piaceva raccontare storie, forse preferivo addirittura raccontarle piuttosto che leggerle.
Oggi, a distanza di tredici anni dalla prima pubblicazione e dopo venti libri, con che occhi guardi alla giovane informatrice farmaceutica che voleva a tutti i costi veder pubblicato il suo primo lavoro?
La guardo con profonda tenerezza. Ero una giovane donna piena di energia, un’energia che faticavo a incanalare in ciò che davvero volevo. Ero impegnata in una professione che rappresentava certamente un ottimo mestiere, era ben remunerato ma non era certo il mio sogno nel cassetto, anche perché si tratta di un’attività che non si annovera mai tra quelle che si vuole esercitare da grandi. Era tuttavia una professione fattibile e possibile, che esercitavo anche in modo dignitoso: non ero la migliore, ma neppure la più scarsa. C’era però una nota stonata; continuavo a desiderare altre cose, che non erano tuttavia così chiare. La scrittura era sicuramente già allora una compagna di viaggio: scrivevo, ma nessuno ne era a conoscenza; si trattava di una passione che tenevo per me. Intanto, mi dedicavo a mille altre attività: amavo viaggiare, visitare mostre, mi iscrivevo a mille corsi, studiavo il francese e il tedesco. Forse, se non mi avessero pubblicato il primo romanzo, mi sarei iscritta anche a un corso di cinese! Ero quindi piena di voglia di fare, ma in fondo in fondo un po’ scontenta, anche se non amavo confessarlo, perché sono sempre stata una persona positiva e ho sempre preferito ringraziare per ciò che possedevo piuttosto che lamentarmi per ciò che mi mancava. Ogni tanto, però, quel che mi mancava mi cadeva addosso. Ho cominciato a scrivere il mio primo romanzo, quindi, mentre esercitavo la professione di informatore farmaceutico e sognavo e speravo di arrivare alla pubblicazione. Questo è secondo me, il sogno di ogni scrittore. E devo dire che resta il mio sogno anche ora: arrivare sempre più in alto; salire, gradino dopo gradino, sempre più su. D’altra parte, credo che questa sia la matrice dei sogni veri: pensare che il prossimo romanzo sarà un capolavoro, sperare di essere pubblicato in un’altra lingua o ottenere un riconoscimento che ancora non hai raggiunto. Il segreto sta proprio qui, nel sentirsi sempre in viaggio e mai del tutto arrivati.
Se tu potessi tornare indietro, ritieni che un indirizzo di studi diverso rispetto a quello che hai intrapreso- magari umanistico anziché scientifico - ti avrebbe agevolata nel tuo percorso per diventare scrittrice?
Mi sono posta questa domanda mille volte. Ma, a essere sinceri, se tornassi indietro, studierei di nuovo biologia, perché sono sempre stata più affascinata dalle scienze piuttosto che dagli studi umanistici, ai quali non ero davvero troppo interessata. Anche oggi, quando tengo i corsi di scrittura, difficilmente propongo un excursus sull’evoluzione del romanzo nella letteratura. Mi limito a qualche accenno, soprattutto per raccontare la tecnica contemporanea dello show don’t tell e per far capire come sia cambiata la scrittura nel tempo. Quindi, per riassumere, non credo che un indirizzo di studi diverso da quello che ho seguito mi avrebbe agevolata. Credo tuttavia che, se avessi studiato scrittura creativa un po’ prima rispetto a quando ho cominciato a farlo, allora sì che avrei tratto giovamento. Ho iniziato da esordiente completamente digiuna e la mia formazione si è approfondita in itinere. Indubbiamente, in questo modo ho perso un po’ di tempo prezioso. Questo è il motivo per cui insisto tanto con gli aspiranti scrittori, affinché si affidino a un buon corso di scrittura, e non necessariamente uno dei miei. Non rompo le scatole per promuovere i miei corsi; ce ne sono diversi, sia in rete che in presenza, che consentono ai potenziali esordienti di riempire più rapidamente quella famosa cassetta degli attrezzi, fondamentale per la buona riuscita di una storia. Se anch’io mi fossi mossa prima in questo senso, i sette-otto anni che sono trascorsi dalla prima stesura del mio romanzo d’esordio (Sulla sedia sbagliata) e la sua pubblicazione si sarebbero potuti ridurre a due o tre. Per concludere, vorrei sottolineare che sono felicissima di essere una scrittrice con un background scientifico, perché mi rendo conto di avere gli strumenti per raccontare storie che non sono alla portata di tutti, perché la cultura scientifica, a differenza di quella letteraria, non può essere “camuffata”.
Ogni volta che, attraverso i social – nei quali sei parecchio attiva –promuovi l’uscita di un tuo nuovo lavoro sei emozionata e piena di entusiasmo, come se fosse la tua prima volta. Come è possibile mantenere vive queste sensazioni e non abituarsi al successo e alla popolarità?
Abituarsi alla popolarità e al successo è un’espressione che mi fa parecchio sorridere, perché non mi sento né popolare, né di successo. Se invece intendiamo il termine “successo” nella sua accezione di “accaduto”, allora sì: mi sono accadute diverse cose e ho la fortuna di poter vivere del mio lavoro. Questo è, per me, un grande successo. Però non ho mai vissuto questo mestiere come un mezzo per raggiungere la popolarità. È un aspetto della professione non mi ha mai colpita. In questo atteggiamento mi sento molto figlia di mio padre: con la stessa serietà e rispetto con cui lui si dedicava alla sua professione, ho vissuto questo mestiere, fin da subito, come un lavoro artigianale in cui ci sono regole da rispettare e nel quale il successo degli altri può avere un effetto benefico, quindi non suscita né gelosie né invidie da parte mia. Il mio rapporto con l’emozione è molto naturale. È vero, mi emoziono e devo dire che, in occasione delle prime pubblicazioni, quando potevo disporre di una maggior riserva d’energia, mi spendevo moltissimo. Ho organizzato tante presentazioni, non mi sono risparmiata e non mi sono mai offesa se non ricevevo inviti o se le mie presentazioni andavano deserte. Ogni romanzo è il risultato di un grande lavoro e dietro ogni nuova uscita c’è davvero tanta fatica, tanto studio, tanta scrittura e altrettanta riscrittura. È normale, quindi, che ogni uscita sia una grande emozione. Ci sono poi romanzi la cui uscita mi ha toccata in maniera particolare. Per esempio, l’uscita di Un uso qualunque di te, dieci anni dopo è stata davvero ricca di significato per me, perché mi ha riportata a dieci anni fa, quando per la prima volta presentavo al pubblico i personaggi di una storia se vogliamo controversa, che è riuscita a suscitare sentimenti contrastanti nei lettori. E allora ne parlavo senza la consapevolezza di ciò che sarebbe successo, mentre oggi, da quel punto di vista, sono maggiormente consapevole e quindi più vulnerabile.
Che effetto ti fanno le critiche negative?
Le critiche negative piacciono poco a tutti, ma ritengo facciano parte della vita di chiunque, indipendentemente dalla professione che si esercita. Critiche negative ne ho ricevute anche prima di diventare scrittrice, perché è inevitabile, specie quando si è in qualche modo protagonisti attivi della vita, essere passibile del giudizio altrui. Ho ricevuto critiche come donna, a volte ingiuste e altre volte costruttive; ne ho ricevute altre legate alle mie scelte universitarie e al modo in cui lavoravo; infine sono stata attaccata per alcune scelte sentimentali e credo che in questo si riconoscano tutte le persone del mondo. D’altra parte, è nella nostra natura criticare gli altri, quindi ci sta che a nostra volta si ricevano giudizi più o meno benevoli. Dal punto di vista specifico della scrittura, devo riconoscere di essere piuttosto fortunata, perché fino ad ora ho attirato poca cattiveria. Forse dipende dal mio atteggiamento: cerco di non esagerare mai e di essere poco invadente, così le persone non si accaniscono nei miei confronti. Cerco di non atteggiarmi mai al ruolo dell’eletta, della miracolata o di chi si sente migliore degli altri. Credo che anche il mio modo di insegnare risenta di questo modo di pormi e per questo, secondo me, viene apprezzato. Le critiche più feroci che ho ricevuto sono sempre state legate a persone che non hanno ottenuto ciò che desideravano o che magari non sono riuscite a pubblicare e si son o rivelate quindi un po’ rancorose. Trovo che il problema, quindi, sia il loro. Attraverso i social, poi, ho capito che in genere chi si esprime con critiche feroci vive male la propria libertà e in qualche modo cerca di spostare l'attenzione sugli altri. L’esperienza e la pubblicazione di diversi romanzi mi hanno fatto cambiare atteggiamento, nel senso che controllo sempre meno le recensioni e le critiche, soprattutto quelle scritte nei siti in cui c'è la libertà assoluta e le persone non devono autenticarsi o risultare identificabili in alcun modo. Poi c’è un ultimo aspetto da considerare: se si analizzano le mie pagine social si nota un tripudio di complimenti, perché occorre molto coraggio per criticare apertamente una persona. Trovo che i social siano un filtro pazzesco e non siano per nulla attendibili. Concludo ribadendo che, almeno fino ad ora, critiche negative da chi davvero conta qualcosa nella mia vita non sono arrivate. Le altre le faccio scivolare via.
Quale percentuale di talento e quale di studio, secondo te, servono a un autore per dar vita a un romanzo di successo?
Io credo che il talento serva nella misura in cui aiuta nel preservare la costanza di raccogliere e sostenere tutto ciò che si impara. La scrittura di un romanzo è un lavoro lungo: scrivere trecento o quattrocento pagine buone, sensate e ben costruite è un processo complesso e impegnativo e, se non si ha una grande passione, non ha davvero alcun senso sacrificarsi. Scrivere non è come qualsiasi altro tipo di allenamento, dove si lavora duramente ma i risultati sono immediatamente visibili. Nella scrittura non è assolutamente detto che sia così, quindi viene da chiedersi “Ma chi me lo fa fare?”. Ecco, il talento è legato molto alla perseveranza. Credo inoltre che un’altra forma di talento stia nella capacità di individuare se una storia può diventare fortissima e centrare il bersaglio. Per il resto, invece, la scrittura è studio, studio davvero intenso. Gli autori stessi sono un po’ stanchi del cliché secondo il quale lo scrittore è baciato dalla fortuna o da un’intuizione che arriva dal nulla. Al contrario, preferiscono che la loro fatica, il loro studio e il loro sforzo creativo vengano riconosciuti e apprezzati.
C’è uno delle tue storie che, potendo, riscriveresti in maniera del tutto diversa?
No. Mi spiego. Credo sia ovvio che, specie le mie prime storie, oggi forse le scriverei diversamente. Sulla sedia sbagliata scritta oggi non sarebbe lo stesso romanzo di dieci anni fa. Un uso qualunque di te scritto oggi sarebbe diverso dalla storia scritta allora, perché la Sara che scriveva in quel momento aveva quello stile, quella scrittura, quella sfacciataggine, quella sfrontatezza dell'essere più giovane, del non avere un figlio, del non aver vissuto moltissime esperienze, del non aver superato un dolore enorme. Quel che ho scritto è frutto del momento in cui la storia ha preso forma ed è, secondo me, il miglior lavoro possibile che potessi fare nel momento in cui ha preso forma. Questo non significa affatto che si trattava di lavori perfetti: non ho mai pensato neppure lontanamente che i miei romanzi siano dei capolavori o che siano perfetti. Sono anche convinta che ciascuno dei miei romanzi, se nuovamente sottoposto a operazioni di editing, ne uscirebbe ulteriormente modificato. A me piace molto lavorare sulla trama, quindi per ogni mia storia ci sono altre mille trame possibili. Ritengo però che a un certo punto ci si debba fermare e si debba operare una scelta, altrimenti non si arriverebbe mai alla fine di nulla.
Come capisci che l’idea che da un po’ ti tormenta può essere quella giusta per diventare un romanzo? E sulla base di quali elementi decidi che sarà un romanzo per adulti, o uno YA o ancora una storia per ragazzi o per bambini?
Credo che scrivere una storia che tormenta sia l'unico modo che si ha per togliersela dalla testa. Per esempio, io intuisco che la storia sulla quale sto lavorando è giunta alla sua completezza quando incomincio a essere tormentata da un’altra storia, del tutto nuova. E quindi vivo una vita di tormenti, sono perennemente tormentata! Scherzi a parte, ritengo sia più facile pensare al motivo per cui una storia non funziona piuttosto che alle ragioni per cui invece potrebbe funzionare. A volte ho in testa storie che funzionano benissimo, ma che non sono adatte al pubblico o al mercato: magari si tratta di storie già viste o raccontate, oppure di vicende che non è più il momento di raccontare perché non più di moda. Inoltre, più scrivi e affronti determinate tematiche, più diventa difficile avere nuovi contenuti da raccontare, originali e interessanti. Per quanto riguarda i generi, le storie per i ragazzi hanno un profilo morale più alto rispetto a quelle destinate a un pubblico adulto, nelle quali si possono inserire anche personaggi che, per esempio, decidono di compiere un’azione cattiva fine a se stessa. Inoltre, ai ragazzi non si possono raccontare tutte quelle parti della vita degli adulti che sono molto romanzate – tradimenti, sotterfugi, gelosie – e che costituiscono in parte la spina dorsale dei miei romanzi, perché non rientrano nel loro interesse. Credo che in un libro destinato ai ragazzi si debba, fondamentalmente, insegnare loro a comportarsi bene. Ecco perché, nella mia produzione destinata a quel tipo di pubblico, preferisco raccontare le vicende che hanno come protagoniste i grandi eroi. Spero in questo modo di risvegliare nei più giovani quell’eroismo naturale che abbiamo tutti e che può aiutarli a diventare persone migliori. Per quanto poi riguarda gli young adults, non ho molta esperienza, perché ne ho scritto solo uno. Si è trattato di una storia piuttosto esplosiva, nella quale ho concentrato molti argomenti che mi interessano: il rapporto genitori-figli, le ripercussioni di un episodio traumatico come il crollo del ponte di Genova (come genovese da sempre desidero parlarne, ma sono molto combattuta), i problemi legati a malattie come l’Alzheimer. Il cuore di tutto è quindi una storia molto ricca, destinata a un pubblico di giovani, ma in realtà fruibile anche da parte dei lettori adulti. Devo riconoscere, per concludere, che il tema del rapporto tra genitori e figli mi sta particolarmente a cuore soprattutto da quando sono diventata madre e ho capito che non sempre è facile fare del proprio meglio, capire fino in fondo le esigenze dei propri figli e dare alla maternità il massimo di sé.
A proposito dei vari generi in cui ti sei cimentata, qual è il più difficile e perché?
Come ho già detto, scrivere per i ragazzi è piuttosto complesso perché non è facile trovare personaggi che abbiano una parte dominante completamente limpida. Ecco perché preferisco raccontare grandi eroi di cui evidenzio le azioni più eclatanti e tralascio gli aspetti meno nobili. Poi, a volte ci sono difficoltà contingenti legate alla stesura di uno specifico romanzo. Per esempio, senza spoilerare, il romanzo che ho appena finito di scrivere è un romanzo storico. E ho affrontato notevoli difficoltà nella stesura, perché non sono una romanziera storica e dover lavorare su episodi accaduti un secolo fa mi ha costretta a studiare a lungo. Quest’ultimo lavoro è quello che ha avuto il più lungo periodo di gestazione. In genere sono una penna abbastanza veloce e anche in questa occasione la fase di scrittura vera e propria è durata meno di due mesi. È stata tuttavia preceduta da un lunghissimo periodo di studio, che si è protratto per oltre un anno.
Cosa ti ha spinta a organizzare corsi di scrittura, per i quali ti spendi moltissimo e perché ritieni possano essere d’aiuto a un aspirante scrittore?
Credo di avere un’innata predisposizione all’insegnamento – non mi sarebbe dispiaciuto diventare insegnante di materie scientifiche – quindi organizzare e tenere corsi di scrittura mi piace molto. Inoltre amo la chiarezza e, per essere chiari, si deve avere dimestichezza con la materia di cui si tratta. Ho cominciato a tenere corsi di scrittura all’inizio della mia carriera come romanziera e inizialmente le mie lezioni erano concentrate sui migliori modi per raccontare le emozioni. Poi, pian piano, ho organizzato corsi più generali, affiancati da altre più specifici e devo dire che ad ogni ciclo di lezioni io stessa imparo qualcosa di nuovo. Inoltre, poiché sono responsabile editoriale della collana Varianti per la casa editrice Morellini, leggo moltissimi manoscritti e, nella quasi totalità delle storie, si avverte la mancanza di un buon corso di scrittura precedente l’elaborazione del testo, che potrebbe consentire all’aspirante autore di evitare tutta una serie di errori, cliché ed ingenuità che renderebbero la storia molto più interessante. Trovo che anche l'autopubblicazione, se non supportata da un buon corso di scrittura che aiuti a raggiungere una certa consapevolezza e a correggere almeno gli errori più macroscopici, potrebbe essere dannosa, perché dà l’illusione di aver raggiunto un traguardo, quando invece potrebbe non essere affatto così. Un buon editing, un coaching serio e un corso di scrittura articolato sono strumenti fondamentali per un aspirante autore che abbia il desiderio di crescere.
Nella tua veste di direttore di collana per Morellini Editore ti imbatti di continuo in manoscritti di potenziali esordienti. Qual è il livello dei lavori che leggi e cosa ti colpisce in maniera particolare in un inedito?
Ultimamente, avendo introdotto una sorta di filtro – un piccolo contributo di lettura – arrivano testi più selezionati, anche perché gli aspiranti esordienti si impegnano a studiare in maniera più approfondita ciò che la casa editrice pubblica. Quindi devo riconoscere che il livello medio di ciò che riceviamo è notevolmente cresciuto. Quando leggo un manoscritto, la prima cosa su cui mi focalizzo è l’attenzione. Se comincio a leggere una storia di cui non so assolutamente nulla e mi ritrovo dentro la vicenda, magari seccata quando devo interrompermi per dedicarmi a qualcos’altro – tipo andare a prendere mio figlio da scuola – allora può essere che il libro abbia delle potenzialità. Io sono innanzi tutto una lettrice e la storia deve incuriosirmi. Poi faccio attenzione all’ originalità della storia, al modo in cui viene raccontata e alla scrittura. Se non mi distraggo mentre leggo, allora la scrittura funziona. Poi ritengo importante anche lo stile scelto dall’autore e devo dire che in casa editrice rispettiamo molto le voci dei nostri autori.
Che lettrice sei? Ci sono generi che prediligi e altri che, magari, proprio non tolleri?
Amo il romanzo storico e il romanzo contemporaneo; mi piacciono le romanziere e devo riconoscere che leggo più romanzi scritti da donne, forse perché quelli scritti dagli uomini fanno parte del mio background culturale legato agli anni della scuola. Non sono una fortissima lettrice di gialli: li leggo, ma non sono la mia priorità. Non amo l'inverosimile, quindi la fantascienza e il fantasy in generale e tutto ciò che richiama il paranormale.
E, per finire, cosa bolle in pentola? Quali sono i tuoi progetti futuri?
Come dicevo poco fa, ho appena concluso un romanzo e sto attendendo il responso da parte della mia casa editrice: se tutto va bene, sarà pubblicato a fine 2023 o all’inizio del 2024. Poi dovrei riprendere in mano una storia per ragazzi che ho già in testa, ma di cui non ho ancora scritto nulla. Proseguirò i corsi di scrittura, tra cui la Fabbrica delle Storie a cui sono particolarmente legata e che riprende a febbraio. Oltre a questi impegni, devo dire che vivo molto di progetti estemporanei che, una volta manifestatisi, cerco in ogni modo di realizzare. Mi piacerebbe, per esempio, continuare a seguire aspiranti scrittori in raccolte di racconti a tema. Ne ho moltissimi che mi frullano in testa e che potrebbero tradursi in lavori interessanti.
Ultimissima domanda. Di quante ore è composta la tua giornata? Come riesci a far tutto?
Devo riconoscere di essere abbastanza brava a organizzarmi e a concentrare, nelle otto-dieci ore quotidiane di lavoro, il maggior numero possibile di attività diversificate. A volte vado in corto circuito, è vero! Però, devo ammettere di essere una persona che si fa ben volere e, quando chiedo aiuto a qualcuno, di solito lo ottengo, anche perché a mia volta mi offro quando altri ricorrono a me. Quindi, non mi sento mai sola e questa è una grande fortuna.