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Intervista a Saša Stojanović

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Il suo libro Var è uscito in Italia appena in tempo per il Pisa Book Festival 2015, ma se ne parla già molto da qualche tempo, anche grazie ad un bellissimo articolo scritto da Anita Vuco, la traduttrice dell’opera. Decido di passare al festival a prenderne una copia la sera prima dell’intervista. Lo apro sperando di leggerne quel tanto che mi consentirà di fare all’autore domande sensate; quando lo chiudo, a pagina 510, sono le sei del mattino, ho le retine tatuate da immagini che non riuscirò mai più a cancellare e la pelle ipersensibile, come dopo una profonda ustione, un trauma. Arrivo al festival per l’intervista con un leggero senso di scollamento dalla realtà, come dopo un incubo particolarmente vivido che rifiuta di dissolversi alla luce del giorno. Saša Stojanović è un uomo di età indefinibile, il cui volto è probabilmente più segnato dalle esperienze che dal tempo, ha lo sguardo distante che si illuminerà però più volte durante il nostro colloquio.




Perché la scelta di usare quattro evangelisti più due protagonisti controversi del Cristianesimo delle origini come Maria di Magdala e Giuda per investigare le cause della guerra in Kosovo nel tuo Var?
Credo che il Nuovo Testamento sia un libro che contiene tutte le caratteristiche della letteratura postmoderna, un libro che si svolge attorno a un personaggio centrale con vari testimoni che ne raccontano la vita, i cui punti di vista riportano le loro percezioni del personaggio; è concepito esattamente come lo è il libro nella letteratura postmoderna. Il Nuovo Testamento è tradizionalmente composto solo dai quattro libri che sono stati canonici, ma dal momento in cui si sono aggiunte a quelle testimonianze le voci dei cosiddetti apocrifi, che sono appunto il Vangelo di Giuda e quello di Maria Maddalena, si è aperta la strada verso lo gnosticismo. Nello spazio tra i vangeli canonici e lo gnosticismo, noi creiamo un ulteriore spazio molto ampio per una nostra percezione gnostica del Nuovo Testamento. La posizione del narratore in questo caso è la posizione di uno che crede in ciò che riporta, ma crede anche che ogni mito debba essere sottoposto al vaglio del dubbio. Non bisogna accettare passivamente le verità che ci vengono raccontate, ma interrogarsi sulla loro consistenza. Bisogna tenere alta la fiamma del dubbio senza timori di sorta, perché il mito in quanto tale riuscirà comunque a sopravvivere proprio grazie alla forza delle sue radici.

Il libro è denso di voci narranti ma più le voci aumentano e più il quadro che dipingono si fa non senso. Hai voluto sostenere che non si possono trovare cause o ragioni in un evento così irrazionale come la guerra?
Nel libro è molto importante la simbologia dei numeri. Ci sono sei evangelisti che ritornano sulla terra (come i sei giorni della creazione), per raccolgono le voci di trenta testimoni, (come i trenta denari che furono il prezzo del tradimento di Gesù) per capire quali sono state le cause della guerra. Una delle domande che più spesso mi vengono poste da ormai 25 anni è: “Perché è successo?”, in un’ansia di ricerca della verità a cui nemmeno le persone che hanno vissuto la guerra sono in grado di dare risposte. Dal momento in cui una guerra scoppia la prima vittima a cadere sul campo di battaglia è la verità. In questo libro la guerra, come normalmente si intende, passa in secondo piano, perde di senso. Le trenta voci narranti balzano in primo piano, con le loro disgrazie personali, le loro vicende umane. È soltanto in questo modo, che può sembrare paradossale, costruendo il mosaico delle loro vicende che possono anche, se si vuole, esulare da un contesto di guerra che si riesce ad illuminare quello che altrimenti sarebbe indicibile, a raccontare la guerra meglio che se si provasse a descriverla. Von Clausewitz definisce la guerra “la continuazione della politica con le armi”. Temo che la verità potrebbe essere anche peggiore. In realtà la pace potrebbe essere un insieme di brevi pause da quella che è una costante storica, ossia la guerra. Lo scopo della vita umana e dell’Arte diventa allora quello di far durare queste pause il più a lungo possibile.

Chi è Čarli, in definitiva?
Čarli è il mio alter ego, ma è anche un classico pseudomotivo, un pretesto narrativo. Tutte le voci narranti l’hanno incontrato in qualche contesto e hanno con lui un rapporto diverso, ce lo raccontano ciascuno dal suo punto di vista. Le voci sono come trenta specchi che gli girano attorno per restituircene l’immagine da angolazioni diverse, ma si rispecchiano anche loro stessi in Čarli. Il riflesso che gli specchi restituiscono è quindi un mosaico che cresce a dismisura. Ho cercato in questo modo di adoperare in maniera personale la tecnica degli specchi di Stendhal. Mi sembrava l’unico modo appropriato di narrare la tematica che volevo trattare. Čarli è soltanto un pretesto per raccontare tutte le altre disgrazie, le vicende umane di ciascuno dei narratori, per creare un mosaico che in realtà deve illuminare qualcos’altro, che non è detto nel testo. Čarli è anche il personaggio che sopravvive e quindi simbolicamente in qualche modo vince la guerra. Come ha argutamente notato Anita Vuco, la traduttrice dell’opera in italiano, la sua sopravvivenza non è casuale, è un miracolo, ha una valenza simbolica. Čarli è anche un infermiere e nel libro riporto una statistica secondo la quale in guerra quando non c’è battaglia muore un infermiere ogni quattro giorni, durante le battaglie uno ogni quattro minuti perché il primo obiettivo dei cecchini è seminare il panico.

Chiudendo questo libro si ha l’impressione che sia davvero l’ultimo libro possibile sulla guerra del Kosovo. Dopo questo, le parole non avranno più lo stesso significato. Quanto tempo hai impiegato per scriverlo?
Ho impiegato nove anni a scriverlo e Anita Vuco, che ha fatto uno splendido lavoro, ha impiegato quasi tre anni a tradurlo. Ti ringrazio per il complimento, ma non credo che esista un’ultima parola sulla guerra. D’altro canto, però non sono nemmeno tanto sicuro che ci sia un altro folle disposto a spendere nove anni della propria vita su un libro! Per poter capire il libro bisogna considerare anche la psicosi che si genera durante una guerra. È come cercare di risolvere un problema matematico con solo una o due incognite, ma in cui le incognite si moltiplicano all’infinito. Sappiamo in partenza che qualsiasi tentativo di trovare una soluzione logica è destinato a fallire. L’unica cosa che rimane è il ruolo dell’Arte, che se non ci aiuta nella ricerca di senso, ci aiuta però a sopravvivere. Anche coloro che con i loro piani decidono della vita e della morte degli individui, sanno che non potranno sconfiggere con le armi il potere dell’Arte e che questa parlerà alle coscienze eternando le testimonianze di ciò che è avvenuto. Il tribunale dell’Arte è spesso più crudele e implacabile di quelli degli uomini.

Tutto Var è infarcito di citazioni colte, ma il contesto in cui sono le ridicolizza, le svuota di senso. Hai voluto affermare che temi come la guerra non possono che essere trattati da un punto di vista animale? Che la cultura, il raziocinio, l’intelletto non possono sfiorarne il significato più profondo?
Ti ringrazio molto per questa domanda. Sono colpito dalle tue osservazioni, per me significa che sono riuscito a far arrivare il messaggio che volevo a chi legge il libro. Mi hai capito perfettamente. Credo che il ridicolizzare, svuotare di senso, sia il mio modo di affermare che qualunque capolavoro, anche il più universale non riesce, in tempo di guerra a competere con il punto di vista di uno che è riuscito a sopravvivere alla guerra, di un veterano del Kosovo. Anita Vuco mi ha raccontato che mentre traduceva questo libro ha letto le 40 regole di Umberto Eco per scrivere bene in italiano. Una di esse era “Usare volgarismi è una caduta di stile” e questo l’ha mandata profondamente in crisi, perché Var è pieno di volgarismi. Era terrorizzata ad andare avanti nella traduzione, finché non ha realizzato che questa regola era stata scritta da qualcuno che non aveva vissuto la guerra sulla propria pelle. Ogni capitolo del libro riporta il titolo di un’opera d’arte, in realtà, però, non vuole svilirla alla luce delle esperienze di guerra, ma valorizzarla. Ad esempio, nel capitolo del libro intitolato La montagna incantata, dal capolavoro di Thomas Mann, la montagna incantata per un soldato che vive la disperazione della guerra diventa il Monte di Venere ma non si può ignorare questa prospettiva se non si vuole rischiare di congelare i capolavori nella loro dimensione del passato. È un gioco molto sottile quello che faccio usando i capolavori dell’Arte, che però non è mai blasfemo o offensivo. Ringrazio molto sia la traduttrice che l’editore i quali sono riusciti a cogliere la sottigliezza del gioco, il fatto che la forza delle immagini non rende la narrazione meno elegante, anche se la sua eleganza è di fatto molto più cruda, amara.

Sesso e morte sono due temi centrali del libro. Li consideri legati?
Il sesso non è altro che un dono divino, un’affermazione di vita. Il sesso è celebrazione di vita, attraverso esso celebriamo l’assenza della morte. Sono due temi metafisici e inconciliabili: vita e morte. La presenza di una implica l’assenza dell’altra. Il sesso è la concretizzazione e condensazione dell’amore e il giorno in cui non saremo più liberi di scriverne, non avremo più nulla di cui scrivere.

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