
L’appuntamento è di fronte alla piccola libreria Trastevere, nell’omonimo quartiere romano. Aspettiamo la giovane autrice Sheena Patel, che a breve incontrerà i suoi lettori per un incontro firmacopie in occasione dell’uscita del suo primo romanzo. Scrittrice e poetessa, nata e cresciuta a Londra, Sheena lavora per il cinema e la tv come lettrice di soggetti e sceneggiature ed è parte del collettivo letterario 4 Brown Girls Who Write. Quando arriva, ci ritagliamo qualche minuto per una chiacchierata sul suo libro. Sorridente e simpaticissima, si offre volentieri alle nostre domande.
Dove nasce l’idea di Ti seguo e quanto ci è voluto per scrivere il romanzo?
Ci è voluto poco, circa un anno e due mesi dall’inizio al momento della stampa. Ho avuto l’idea durante il lockdown invernale lo scorso anno, osservando l’assalto al Campidoglio degli Stati Uniti. In quell’occasione si è reso evidente come l’idea di fandom si sia infiltrata nella politica. Le persone che si trovavano fuori dal Campidoglio quel giorno non stavano compiendo scelte razionali, tutto era spinto dalle emozioni, da una sorta di cieco amore. Hanno seguito i suoi comandi, hanno smesso solo quando lui ha detto di smettere. Ed è la stessa cosa di quando sei innamorato di qualcuno che è emotivamente non disponibile. È lo stesso desiderio di essere validati, di essere notati. È la struttura stessa del fandom. E questo accade anche sui social media. Mi sono poi chiesta perché nel Regno Unito le persone di colore hanno bisogno di una piattaforma sui social media e cosa ottengono con questo. Perché ne abbiamo bisogno, da cosa cerchiamo di proteggerci? In sostanza ho cercato di pormi queste domande e la voce è arrivata. Col passare del tempo è diventata sempre più intensa, tanto che sono dovuta tornare indietro e rivedere ciò che avevo scritto per dargli questa intensità. È stato un processo di scrittura davvero molto intenso, quasi ossessivo.
E a proposito di ossessione: pensi sia un problema reale, un rischio del vivere Internet, i social media, il web? Come pensi si possa evitare – o vi siamo ormai troppo “immersi” per poterlo evitare?
In realtà non ho una vera risposta. Ho scritto questa storia per portarla al limite, all’estremo. In un certo senso volevo rispecchiare i nostri comportamenti, quel qualcosa che tutti noi abbiamo fatto ma di cui non abbiamo mai parlato, e pensavo: come ci sta rendendo l’Internet, cosa ci sta facendo fare? Perché noi usiamo Internet, ma in realtà sembra che Internet stia usando noi. E di cosa ha bisogno per continuare? Così ho pensato di capovolgere questa idea di chi sta usando chi. Internet è una cosa fantastica, i movimenti rivoluzionari degli ultimi anni non sarebbero potuti esistere senza Internet, penso a #MeToo, al caso di George Floyd. Non c’è modo di fermare le informazioni come prima. Ma questo richiama delle emozioni oscure ed è ciò che più mi interessava, non condannare Internet ma esplorare il suo lato oscuro. In inglese il titolo del romanzo è I’m a fan e il lato oscuro di questa espressione è il concetto di fanatismo. Così ho provato a muovermi in questa zona d’ombra e portarla alla luce. Quindi in realtà non ho risposte, non saprei.
Quale tipo di reazione ti aspettavi dal pubblico? Come avresti voluto che il tuo romanzo fosse recepito?
In realtà non l’ho scritto pensando che qualcuno poi l’avrebbe letto, ho scritto e basta. Non so se spetti a me dire come vorrei che fosse ricevuto dal pubblico. Ho pensato che sarei stata demolita, cancellata per averlo scritto, ero molto molto nervosa. E sarebbe potuta andare così se i tempi non fossero stati maturi. Non mi aspettavo che sarebbe andata così bene ed è stato fantastico. La reazione è stata ottima e ne sono molto contenta, l’unica cosa che spero è che le persone possano comprenderlo. Nel Regno Unito alcune persone hanno dichiarato di odiare la protagonista, ho pensato che fosse abbastanza estremo odiare un personaggio. Io ho cercato di portare fuori ciò che si trova in ciascuno di noi. Nella psicologia junghiana c’è la cosiddetta ombra, e poi c’è la totalità dell’inconscio. Ho cercato di attingere a questi concetti, usando gli archetipi di potere, sesso, status, cose antiche che ho provato a mettere in relazione con le nuove idee. E poi la differenza di età, le dinamiche di potere tra uomini e donne, la violenza tra donne e donne, sembrano comportamenti obsoleti, ma volevo mostrare come in realtà niente è cambiato davvero, ha solo cambiato forma. Siamo tutti soggetti all’invidia, tutti. Questa è in un certo senso una storia di vendetta ma c’è anche, spero, umorismo e spazio per una risata.
Che tipo di rapporto ha Sheena Patel con i social media?
Amo Instagram, penso sia grandioso. Ho iniziato a scrivere sfruttando l’aspetto di networking di Instagram per connettermi con le persone e incontrare altri scrittori. Sono in un collettivo con le mie amiche e usiamo i social per costruire un seguito, per ritagliarci degli spazi. È un luogo dove puoi essere notato e magari un’istituzione come l’industria editoriale non sa che esisti, quindi quando hai qualcosa come Instagram diventa molto più facile essere visti come legittimi, è uno step verso la legittimazione. Ma è interessante come devi vendere te stesso per renderlo possibile. È una cosa strana, da essere umano, dover pensare te stesso in termini capitalistici, come un brand. Devo parlare così, mostrarmi così eccetera. È proprio “hustle culture”, stacanovismo, e in un certo senso riflette l’instabilità del mercato del lavoro, dove sei costantemente obbligato a mostrarti professionale, “assumibile”, speciale, perché devi sopravvivere. È come avere costantemente un secondo lavoro.
Hai scelto una forma particolare, fatta di brevi capitoli e titoli spesso spiazzanti, che – azzardiamo – sembrano richiamare sia stilemi poetici che veri e propri post social, con le loro caption brevi e d’effetto. Avevi già chiara questa impostazione formale o si è costruita nel tempo?
Un po’ di entrambe. Quando ho iniziato a scrivere avevo il primo capitolo e il titolo, che in inglese è Do I. Inizialmente prendevo una parola dal capitolo per usarla come titolo. Continuando mi sono detta che avrei dovuto usare i meme! Perché i meme sono davvero divertenti quando sei molto depresso, quando guardi negli abissi della disperazione. Pensavo che sarebbe stato un ribaltamento divertente far lavorare i titoli contro il testo. Inoltre io personalmente tendo a prendermi gioco di tutto, quindi in un certo senso stavo sdrammatizzando la serietà di una cosa come scrivere un romanzo attraverso questo capovolgimento. È qualcosa che bilancia la serietà, perché essendo così ossessivo il romanzo a volte può sembrare abbastanza ripetitivo o claustrofobico. Il titolo funziona come un modo per trovare sollievo. È un po’ come la rottura della quarta parete, c’è consapevolezza di sé, un po’ di rilascio della pressione. Ma è anche, nelle mie intenzioni, semplicemente divertente, perché amo scherzare. Non so come si scrive un romanzo, ora so come si scrive questo romanzo, ma ho dovuto in un certo senso imparare a scriverlo. Riguardo la forma anche gli spazi bianchi sono importanti, così come il fatto che i titoli siano allineati a destra invece che a sinistra. È una scelta informale e formale allo stesso tempo. Tutto è pensato per rovesciare qualcos’altro. Quando pensavi di aver capito, ecco che arriva qualcosa a toglierti il terreno da sotto i piedi. Non voglio darti una storia, ma ti faccio girare, ti spingo in continuazione, per tenerti sempre in guardia.