
Silvia Bottani, critica d’arte e giornalista per numerose testate online, ha scelto per il suo esordio narrativo di cimentarsi con il romanzo noir a sfondo sociale: atmosfere afose, personaggi in conflitto con loro stessi e con il mondo, storie di uomini e donne diversi per pelle, credo e cultura, ma accomunati dalle stesse paure di esseri umani. Nell’intervista che Silvia ha concesso a Mangialibri, proviamo ad approfondire qualche aspetto del suo mestiere di scrivere, indagando fra modelli, percezioni, sensazioni, progetti e intenzioni.
Il giorno mangia la notte è il tuo romanzo di esordio. Non penso che sia un “romanzo giornalistico”, però credo che sia necessario chiarire quanto il tuo mestiere possa avere influenzato la tua capacità di essere scrittrice. O forse l’essere scrittrice ti aiuta a fare la giornalista. Insomma: dove finisce la giornalista e dove comincia la scrittrice di romanzi?
Credo che sia la mia scrittura giornalistica, sia quella narrativa siano influenzate dal rapporto con le arti visive. Mi sembra che la mia scrittura sia sempre essenzialmente un tentativo di “ekphrasis”, anche quando osservo la realtà più ordinaria o quando manipolo il materiale finzionale. Narrativa e giornalismo sono ambiti destinati a contaminarsi e sconfinare l’uno nell’altro – penso a Buzzati, Didion, Capote, Dyer, Vollmann, Luiselli e molti altri – ma più che le specificità e le differenze, quello che mi interessa è lo sguardo che l’autore esercita e che lo fa muovere tra un territorio e l’altro. Ciò che mi guida è un certo modo di guardare che mi porta a farmi delle domande, domande che affronto in maniera differente se sto scrivendo un articolo o un racconto, ma che nascono dalla stessa curiosità nei confronti delle cose e da una determinata postura, che si radica nell’esercizio del disegno e della lettura: due modi diversi per conoscere ma accomunati dal segno.
Hai scelto come ambientazione una “Milano nera” di qualche anno fa, però senza una netta contrapposizione fra centro e periferia. Mi sembra di intravedere nel tuo progetto/oggetto il tentativo di andare oltre cliché ed etichette e di voler rappresentare la complessità di una grande città, ma più in generale la complessità della nostra società, fatta di generazioni affermate e smarrite, generazioni emergenti, amicizie e gusti nascosti, fatta di differenze e tentativi di integrazione. C’è più che altro una contrapposizione fra la Milano “bene”, traffichina e cocainomane, e la Milano dei derelitti, immigrati, prostitute, tossici… Tutto questo è Milano, tutto questo è la nostra società?
La città che racconto è la Milano odierna, una metropoli che ha molto in comune con altre grandi città europee, che sono un osservatorio privilegiato di alcune tendenze in atto nella società. Milano, in particolare, è una città di povertà e di grandi capitali finanziari, di speculazione edilizia e gentrificazione, di integrazione e consumismo, che sfrutta talenti e ha una fede quasi religiosa nel mito della produzione. È anche oggetto di una narrazione, frutto di una precisa scelta di marketing, che non rende giustizia alla sua complessità. Gli aspetti oscuri ce ne restituiscono invece le contraddizioni e l’autenticità: nel mio romanzo ho cercato di darne una rappresentazione non pacificata né moralistica, perché credo che i conflitti vadano accolti, non rimossi. Ho poi costruito i personaggi come un’incarnazione dell’energia psichica della città, facendo in modo che ognuno ne portasse in sé alcuni caratteri. Mi piaceva l’idea che fossero loro ad appartenere ai luoghi che vivono e non viceversa: l’idea dello spazio che ci abita come forma di possessione mi interessa, soprattutto ora che i luoghi sono sempre più transitori e noi siamo sempre meno “radicati”.
Milano è nera come Naima, la tua protagonista. Anche se Stefano è, a mio avviso, il personaggio più riuscito. Non mi sentirei di definire etichette di “eroe” (Naima) e “antieroe” (Stefano), però sono indubbiamente due personaggi che si completano: l’una posseduta dal pensiero amaro e nostalgico di ciò che ha perso, l’altro invece dal desiderio di qualcosa di migliore. Stefano cerca la via di fuga nella assurda violenza neofascista, a cui peraltro non aderisce fino in fondo o comunque vi aderisce in modo molto confuso, Naima scarica la sua rabbia prendendo il mondo a pugni. Quanto è la storia di sconfitti (pensiamo anche a Giorgio ed Elena) e quanto invece è un romanzo di riscatto (quello del giorno [luce] che mangia la notte [buio])?
Non lo definirei un romanzo di riscatto, perché il riscatto non c’è, come non ci sono eroi e antieroi in senso assoluto. Ci sono degli individui che cercano di resistere alla deriva che li trascina con sé, nella cornice di un mondo al collasso. Questa agonia è interrotta da momenti di luce che aprono a delle possibilità: non so se Giorgio, Stefano, Naima siano degli sconfitti, piuttosto mi sembra cerchino di non franare insieme alle macerie delle loro vite. Si oppongono a delle forze più grandi di loro che li travolgono – l’ingiustizia, la propria incapacità di fare fronte alla vita, ma anche il desiderio – e di certo, anche in modo distorto o fallimentare, fanno del loro meglio. Se devo trovare un genere a cui apparentare questa storia penso al romanzo sociale e al noir, nei quali il racconto degli ultimi, delle disuguaglianze e la volontà di illuminare le zone di ombra dell’esistenza sono la materia prima della narrazione.
È anche un romanzo di fede (perduta o mai persa) e di valori (sbagliati o giusti che siano), ed infine un romanzo dove domina la scommessa e l’azzardo. Cos’è oggi l’appartenenza?
Non credo che l’appartenenza sia un sentimento contemporaneo. Vedo il tentativo collettivo di aderire a gruppi disparati, piccole tribù e consorterie ma si tratta di tentativi che rivelano un vuoto di senso. Nel migliore dei casi, apparteniamo a noi stessi, ma per lo più apparteniamo ai nostri consumismi e conformismi. Mi piacerebbe però, se posso auspicare qualcosa per il prossimo futuro, che il sentimento di appartenenza si ricostituisse a partire da un rinnovato senso del nostro ruolo su questo Pianeta. Stiamo attraversando una crisi epocale e per superarla abbiamo bisogno di aprire gli orizzonti, allargare le visioni ed esercitare l’immaginazione. Rovesciare i paradigmi che ci hanno portati sull’orlo dell’estinzione e costruire un nuovo rapporto con gli esseri viventi – umani e non - mi sembra una priorità. Mi piacerebbe che sviluppassimo la consapevolezza di appartenere tutti a un unico, delicato ecosistema fatto di relazioni da cui dipende la nostra stessa esistenza, e che questo orientasse le nostre scelte da qui in avanti.
Quanto dobbiamo aver paura oggi di rigurgiti razzisti? Quanto dobbiamo aver paura oggi di integrarci?
Nell’anno appena trascorso abbiamo osservato una recrudescenza di episodi di razzismo, evidenti negli scontri tra la destra bianca, nazionalista americana e il movimento dei Black Lives Matter. Il razzismo è un orrore che non ci hai mai abbandonati e naturalmente non riguarda solo gli Stati Uniti, dove rappresenta una questione letteralmente fondante. L’immigrazione e l’incontro/scontro di civiltà diverse sono uno dei temi più rilevanti del nostro presente, soprattutto se consideriamo le previsioni che stimano in 1 miliardo il numero dei profughi climatici previsti entro il 2050. Personalmente non vedo altra soluzione che la collaborazione e la solidarietà: non ci salveremo barricandoci dietro a muri né presidiando i nostri fortini. La storia insegna che i processi di integrazione non sono indolore, ma sono anche germinali. Spero saremo capaci di superare le paure e dotarci di strumenti per ripensare la nostra convivenza civile.
Come pensi sia stata l’esperienza di scrivere un romanzo? Qual è l’errore che non rifarai e quale invece il consiglio che seguirai?
Scrivere un romanzo è un’esperienza bellissima e impegnativa, soprattutto in termini di autodisciplina. L’errore che ho fatto e che continuo a fare è di editarmi da sola in fase di stesura, un puntiglio che fatico a togliermi. Il consiglio che cerco di seguire è quello di scrivere in libertà e poi tornare sul testo in una seconda fase, ma è difficile liberarsi delle proprie nevrosi.
Un’ultima domanda, di rito: cosa c’è nel cassetto di Silvia Bottani? Progetti futuri?
Sto scrivendo un nuovo romanzo, una storia che mi sta molto a cuore, nata anche questa volta da un’immagine. Ci sono poi altri progetti editoriali a cui ho partecipato e che vedranno la luce nei prossimi mesi, tra cui un saggio e un reportage, e altro ancora. Dopo un anno come quello che abbiamo trascorso è difficile fare programmi per l’immediato futuro, mi auguro però mesi a venire pieni di scrittura.