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Intervista a Silvia Cosimini

Silvia Cosimini
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Oggi riusciamo a leggere autori di ogni parte del mondo e ci sembra una cosa naturale. Ma se possiamo gustarci della buona narrativa dall'Europa del nord che più nord non si può, per esempio, dobbiamo dire grazie a chi ha saputo accontentare anche i palati più esigenti, a persone come come Silvia Cosimini, valente traduttrice dall'islandese.

Quando nasce la passione per la lingua islandese?
Ahimè, mi tocca tornare indietro di vent’anni… all’università, al primo corso di filologia germanica: studiavamo le saghe, e quindi l’islandese antico. Qualche tempo dopo, al momento di decidere l’argomento della tesi, la scelta è caduta sempre sull’islandese antico, benché non fossi particolarmente convinta. Poi è arrivata una borsa di studio per un anno a Reykjavík, dove mi sono iscritta a un corso triennale di islandese moderno senza nemmeno sapere se l’avrei mai portato in fondo. E invece gli anni in Islanda sono diventati quattro… Diciamo che non è stato amore a prima vista, né una passione che si è scatenata ‘a pelle’; piuttosto un amore profondo, nato da anni di solida amicizia e frequentazioni assidue. Una concatenazione di eventi, un passo dopo l’altro, una contingenza di cose. Ma non mi sono mai pentita.

 

È una lingua insolita, come ci sei venuta in contatto?
Per un filologo germanico l’islandese è un po’ una tappa obbligata, vediamo se riesco a spiegare il perché. Prendiamo le lingue romanze, italiano, francese, romeno, spagnolo: derivano tutte dal latino, e applicando le dovute regolette fonetiche e grammaticali si ricava sempre la loro matrice comune. Anche tutte le lingue germaniche (tedesco, inglese, svedese, danese, olandese, norvegese, islandese, afrikaans…) hanno una matrice comune, e anche in questo caso si risale a ritroso a una lingua unica da cui sono derivate; però a differenza del latino è una lingua che non c’è, non è attestata; viene chiamata convenzionalmente germanico comune. Ecco, l’islandese rappresenta il gradino più vicino a questo germanico comune, che non esiste: l’islandese è la lingua più affine all’equivalente del latino per la lingue germaniche. Bello, no? È una sorta di lingua classica germanica. Per gli ‘addetti ai lavori’ non è affatto insolita.

 

Cosa ti affascina della lingua islandese?
La tempra. Il fatto che riesca a sfidare il tempo che passa e la naturale evoluzione delle cose, e conservarsi integra, com’era nel 1200, malgrado anni di supremazia del danese, malgrado le pesanti ingerenze dell’inglese americano, malgrado la recente ondata di immigrazione, malgrado il purismo assurdo e un po’ ridicolo dietro cui si barrica. Quando penso che sono poco più di trecentomila persone a parlarla, mi dico che ormai dovrebbe trovarsi sull’orlo dell’estinzione, come le lingue celtiche; e invece nonostante tutto è ancora lì, viva e vegeta, e produttiva. Mi affascina la sua complessità, il fatto che riesca a mantenere otto varianti diverse di un solo sostantivo, o la logica contorta che lega ogni verbo a uno o più casi. Forse mi piace la sfida, semplicemente, a cui mi mette costantemente di fronte.

 

C'è un momento della giornata in cui preferisci lavorare?
Magari! I miei tempi lavorativi sono obbligati, sono quelli che restano ‘per me’ dopo la famiglia e la casa. Lavoro quando la mia bambina è a scuola, nei momenti in cui la casa si svuota (succede, qualche volta, quando marito e figlia si dedicano l’uno all’altra) e nei quindici giorni all’anno che passo da sola in Islanda. Non ci sono momenti preferiti: o questi, o niente! Purtroppo io ho bisogno di farmi il vuoto intorno per poter produrre qualcosa di decente; invidio molto chi riesce a tradurre un capitolo nei tre quarti d’ora in cui i figli sono in palestra, o tra la spesa al supermercato e la visita dal pediatra. Lavorare da casa è una condizione che ha aspetti indubbiamente positivi, ma anche tanti lati negativi, benché molti pensino che sia solo un privilegio.

 

Qual è l'aspetto che ti piace di più di quello che fai? E quello che ami meno?
La cosa più bella del mio mestiere è poter tradurre autori e generi sempre diversi. È un lavoro che non mi annoia mai: ad ogni nuovo libro si cambiano ambiente, personaggi, convivenze, toni espressivi… e per me questa varietà è fondamentale – mi annoierei, altrimenti, non sono fatta per i lavori ripetitivi. Mi piace non avere un genere particolare in cui dovermi specializzare, mi piace cambiare. Mi piace ascoltare il timbro di un autore e cercare di riprodurlo nella mia lingua; tirare fuori un equivalente italiano per ogni sfumatura diversa che la lingua esprime.  La cosa che mi piace meno sono i compensi! C’è tanta fatica dietro a una traduzione, è un lavoro che non ti lasci alle spalle quando stacchi, non è come chiudere la porta di un ufficio e tornare a casa; tradurre è quasi un modo di vita. E dispiace che tutta questa fatica non debba essere quantificata in modo adeguato. Nonostante un recente interesse per questo mestiere, i corsi e le scuole di traduzione che sono fioriti negli ultimi anni, le condizioni contrattuali dei traduttori in Italia sono ancora molto primitive. Con alcuni miei colleghi ci siamo costituiti in un sindacato, una sezione distaccata del Sindacato Nazionale Scrittori (http://www.traduttorisns.it/index.htm) proprio per cercare di ottenere condizioni migliori in maniera costruttiva – magari non conquisteremo niente di concreto nell’immediato, ma forse le generazioni future avranno una coscienza maggiore della propria categoria.

 

Instauri un rapporto diretto con gli scrittori che traduci?
La cosa che più apprezzo della piccola comunità islandese è proprio la facilità nei contatti, l’estrema democraticità, per cui nessuno (nemmeno il presidente della repubblica) si trincera dietro scorte, occhiali scuri, atteggiamenti da vip. Quasi tutti gli autori che traduco sono miei amici, anche quelli che mi piacerebbe tradurre e che non ho ancora tradotto. Basta alzare il telefono, o scrivere una mail: è un bonus dato a chi traduce da lingue minoritarie, perché un autore che scrive in islandese è ben conscio sia del ruolo fondamentale che rivestono per lui i suoi traduttori, sia del ruolo para-autoriale del traduttore: tutti i miei scrittori islandesi mi hanno sempre detto: ‘questo libro adesso è mio quanto tuo’, e insomma, fa davvero piacere. Ogni volta che vado a Reykjavík ci troviamo, si fanno due chiacchiere davanti a un caffè in centro, oppure si va a pranzo insieme, a teatro. E quando qualcuno di loro viene in Italia passa sempre da casa mia; ci scherziamo su, la chiamano la gistihús Íslendinga, la pensioncina degli islandesi. Una volta Thor Vilhjálmsson (ultra ottantenne, cintura nera di karate e una guida al volante a dir poco disinvolta) mi ha portato da un suo amico, Páll di Húsafell, a due ore e mezzo di macchina da Reykjavík. Era una bellissima giornata di sole, di maggio; nel pomeriggio in una grotta nelle vicinanze c’era un concerto di Steindór Andersen, che cantava accompagnato dal petrafono di Páll. Si accedeva alla grotta scendendo dei gradini scolpiti nella neve ghiacciata. Ad ascoltarlo c’era un centinaio di persone, la grotta si è scaldata e il ghiaccio ha cominciato a sciogliersi: la voce di Steindór si accompagnava alle gocce dell’umidità che scendevano dalle pareti di roccia. Un’esperienza straordinaria, da pelle d’oca, che solo Thor avrebbe potuto regalarmi; che fosse stato il 2005 oppure il 1250, non aveva nessuna importanza.

 

A cosa stai lavorando adesso?
Al quinto giallo di Arnaldur Indriðason, per Guanda, in uscita per i primi mesi del 2010. In islandese si intitola Vetrarborgin, che vuol dire ‘la città d’inverno’, ma non so quale titolo deciderà di adottare la casa editrice italiana. Ovviamente non posso anticipare nulla, se non che negli anni le vicende dell’agente Erlendur prenderanno pieghe inaspettate.

 

Chi o che genere ti piacerebbe tradurre?
Quanto tempo abbiamo? :) Ho letto alcuni autori bellissimi, che continuo a proporre a destra e a manca, senza aver ancora trovato un editore italiano che li voglia pubblicare. Uno per tutti, Jón Kalman Stefánsson, che è già stato tradotto in Germania, dove ha un grande successo, e tra poco uscirà anche in Francia. Per me sarebbe davvero un onore poter tradurre un suo libro e cimentarmi con tanta bellezza, ha uno stile che ho subito riconosciuto come ‘mio’, e di cui potrei essere anche gelosa! (e se non è una dichiarazione questa…) Ma c’è anche Kristín Marja Baldursdóttir, una bella cinquantenne che racconta la realtà dei piccoli paesini della costa e la vita delle donne nel corso del Novecento. O Bragi Ólafsson, l’ex batterista degli Sugarcubes: scrive romanzi inquietanti, un po’ ‘paulausteriani’. Nessuno di loro, ovviamente, è autore gialli, altrimenti li avrei già piazzati, credo! Ci dev’essere un serio scollamento tra i miei gusti letterari e le esigenze del mercato.  E poi non bisogna dimenticare il mio primo amore, la letteratura islandese antica: sto lavorando da a-n-n-i a una raccolta di racconti medievali, assolutamente strepitosi; li ho sempre lasciati indietro per dare la precedenza ai romanzi più urgenti, ma adesso me lo sento, ci siamo quasi. L’editore giusto l’ho trovato, mi basterebbe trovare anche un po’ di tempo per poterli partorire in pace.

 

Qual è la cosa tra le cose che hai fatto quella che ti ha emozionata di più?
Faccio un torto ai lettori e alla lettura, forse, ma devo ammettere che l’emozione più grande me l’hanno data le poche traduzioni che ho fatto per il teatro. È bellissimo vedere il proprio testo che prende vita, la mia voce, le mie scelte che acquistano una dimensione sonora. Non so, è come se la mia traduzione, proprio perché  ‘verbalizzata’, avesse più forza. È come se io fossi presente ogni volta che un lettore si siede in poltrona a leggere e apre uno dei libri che ho tradotto: ne posso vedere le reazioni, le risate, gli stati d’animo. Non sto dicendo che mi piace di più tradurre per il teatro; semplicemente dico che è stupendo poter considerare il proprio lavoro con una percezione diversa, sonora.

 

Sei una lettrice? Cosa ti piace leggere?
Leggere mi piace moltissimo, mi dà la possibilità di vivere in mondi paralleli. Leggo, ovviamente, molti islandesi in lingua originale, e ho un ‘progetto italiano’ in corso, per cui da un paio di anni cerco di leggere soprattutto libri di scrittori italiani, perché ho bisogno anche di un contatto non mediato con la mia lingua. Non sono una grande appassionata di gialli, è un genere che apprezzo ma di cui posso tranquillamente fare a meno; la mia scrittrice preferita in assoluto è Antonia S. Byatt.