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Intervista a Stefano Domenichini

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Stefano Domenichini da Reggio Emilia, avvocato con il vizietto della scrittura e il fisico dell’attore di fiction, è approdato ad Autori Riuniti dopo un percorso interessante nell’underground letterario italiano. Lo incontriamo al Salone del Libro di Torino 2019 per una breve chiacchierata.




Il tuo Storia ragionata della sartoria americana nel dopoguerra e altre storie è – a seconda dei punti di vista – una raccolta di tre racconti lunghi (o romanzi brevi), oppure un romanzo diviso in tre sezioni. C’è qualcosa che accomuna le storie che lo compongono?
Tra loro non c’è niente in comune, l’unica cosa che le lega è il titolo.

Partiamo dalla prima sezione (o dal primo racconto, fai tu). Hai chiamato il protagonista il Sarto, perché? Perché questa spersonalizzazione che è allo stesso tempo una totale identificazione con una figura precisa?
Il racconto intitolato Storia ragionata della sartoria americana nel dopoguerra è la storia inventata di un personaggio realmente esistito, si tratta dell’uomo che ha filmato il famoso assassinio di Kennedy. Quindi si sarebbe potuto chiamare sol suo vero nome, ma siccome la storia è tutta giocata su una vicenda reale completamente inventata questa spersonalizzazione pensavo ci potesse stare, ecco.

Il rapporto del Sarto con la propria madre pare lo stereotipo delle relazioni tra genitori e figli nella seconda metà del Novecento. Cioè una sorta di rapporto di dipendenza e di insofferenza. Lei iperprotettiva, lui pazientemente benevolo. Tra i due, però, c’è questa sorta di ossessività. È così? E se sì, perché?
Sì, è così. Il racconto tratta dell’educazione, di come la famiglia possa essere un microclima assolutamente devastante, e di come certi rapporti impattino in maniera molto negativa sulla vita. Il Sarto si trova al centro di momenti cruciali della storia, ma non è mai del tutto cosciente di quello che sta facendo. È uno che si guarda intorno, ma non è mai veramente presente. E questo deriva anche dal rapporto con la famiglia, molto ossessiva e protettiva.

Questa famiglia potrebbe essere vista come una trappola pirandelliana?
Sì, credo di sì, ma soprattutto come quella de Il lamento di Portnoy di Philip Roth.

Parliamo adesso di un personaggio minore del tuo romanzo, lo scrittore. Figura brevemente, ma la madre del Sarto lo addita immediatamente come comunista, naturalmente con un’accezione negativa. Perché credi che gli intellettuali siano visti come entità avverse? C’è diffidenza verso il mondo della cultura, in qualche modo?
C’è diffidenza da parte di quel mondo che vive di disciplina e preconcetti stereotipati. Parlo di quella gente che ha bisogno di avere un suo giardinetto sempre uguale per sentirsi rassicurato. Dunque in questo caso la figura dello scrittore è necessariamente una minaccia. D’altra parte la prima cosa che blocca la dittatura è l’arte, il libero pensiero.

Tu dici “la vita è una cosa molto più grande del tentativo di due esseri fallibili di stare assieme”. E allora la vita cos’è, secondo te?
Questa frase la dico nel secondo racconto. È il più intimo dei tre e parla del rapporto tra uomini e donne, un rapporto su cui spesso ci si va a intestardire e questo crea confusione, diventa una perdita di tempo. Ecco, la frase significa che spesso non vale la pena farlo.

I LIBRI DI STEFANO DOMENICHINI