
Scrivere un romanzo è difficile, scriverlo a quattro mani lo è ancora di più, perché la furia narrativa che infervora uno scrittore in questo caso raddoppia. È quello che sembra succedere al “collettivo letterario a due” che si firma con lo pseudonimo Tersite Rossi. Ho provato ad intervistarli per andare all’origine della loro creatività.
Scrittura collettiva e scrivere in cooperativa. Come funziona? Come ci si divide le parti? Nella lettura di Gleba si notano infatti, anche se impercettibili, alcuni cambi di registri stilistici (penso alle parti in cui compare il prof. Calopresti, per esempio): vi dividete le storie o i personaggi?
Il lavoro collettivo inizia con la scelta del soggetto e la definizione di quella che noi chiamiamo “scalettona”, ovvero il documento che registra in maniera dettagliata il contenuto di tutti i capitoli e la loro suddivisione tra noi. Dopo la fase di scrittura vera e propria, che resta inevitabilmente individuale, segue una nuova fase collettiva: terminata la stesura di ogni capitolo, ciascuno lo trasmette all’altro affinché lo sottoponga a un vero e proprio editing, in modo che il risultato finale, soprattutto dal punto di vista stilistico, non appartenga più a nessuno di noi, ma a Tersite Rossi. I cambi di registro che pure si trovano in tutti i nostri romanzi non sono pertanto determinati dalla mera suddivisione del lavoro, ma dalla precisa volontà di usare lo stile come strumento d’azione dei personaggi. Ecco allora che, ad esempio, in Gleba, il registro un po’ scanzonato dei capitoli relativi a Calopresti serve a trasmettere al lettore lo spirito “caloprestiano”.
Scrivere un romanzo storico. Gleba è un romanzo storico, in un certo senso: fatto di più personaggi, ispirati a vicende reali. Come si fa a trovare la giusta miscela per impedire che la ricostruzione storica non travolga la scrittura narrativa (rischio che correte spesso nella ricostruzione delle vicende della compagna Diana, per esempio)? Come nasce un romanzo del genere e quali sono i rischi maggiori, considerando che un romanzo storico è sempre, più di altri, un romanzo politico?
Gleba è un romanzo ambientato nella nostra contemporaneità senza che venga mai indicato l’anno preciso in cui si svolgono le vicende. Pertanto qualcuno potrebbe faticare a considerarlo a tutti gli effetti un romanzo storico. Eppure lo è, almeno da due punti di vista. Da un lato, si regge su un’approfondita attività di documentazione, basata su decine di saggi relativi alle tematiche che il romanzo affronta: lavoro in primis, ma anche servizi segreti, brigatismo, jihad; documentandoci in tal modo, ci è stato possibile disseminare la narrazione di fatti storici realmente accaduti e di personaggi storici realmente vissuti, che si mescolano alla pura invenzione narrativa. Dall’altro lato, Gleba è un romanzo storico nella misura in cui non si riduce al solo tempo e al solo spazio narrati, ma in qualche modo li trascende inserendo le vicende dei suoi personaggi nella storia universale dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dell’eterno bivio tra vivere o servire. I rischi di un simile modo di narrare sono tanti. Riguardo al rischio che la materia storica travolga quella creativa, conosciamo un solo modo di scongiurarlo: andare oltre la storia, rimanendo però sempre nel campo del verosimile, facendo valere il pasoliniano “io so, ma non ho le prove”: solo il romanziere, e mai lo storico (né il giornalista), può in tal caso andare avanti a raccontare: ad esempio, come abbiamo fatto noi in Gleba, facendo tornare in azione le Brigate Rosse oggi, senza che in effetti appaiano i presupposti di un loro ritorno. Il rischio maggiore, a quel punto, è dimenticare la grande responsabilità che una simile opportunità porta con sé, e quindi mettersi a giocare con la storia per il mero intrattenimento del lettore, per il mero scopo di colpirlo. Al contrario, se immaginiamo il ritorno delle Brigate Rosse oggi, forzando così la storia e andando oltre essa, lo facciamo per raggiungere obiettivi “politici”, e mostrare, ad esempio, la grande contraddizione esistente tra il peggioramento delle attuali condizioni del lavoro e la mancata reazione collettiva dei nuovi sfruttati, oppure per enfatizzare la dimensione di solitudine, quasi solipsismo, che caratterizza i nuovi terrorismi, tanto politici quanto religiosi, intesi ormai come semplici risposte al gigantesco vuoto esistenziale prodotto dalla società dei consumi, dell’apparenza, del “sempre di più”.
Gleba è un romanzo corale, che anche se forzatamente intreccia più storie. Frutto sicuramente di una lettura relativistica e complessiva di un evento, ma anche un romanzo per molti aspetti distopico. Chi è la gleba e la vostra critica sociale e politica dove si colloca, chi attacca?
La “gleba” è, da un lato, la terra che può asservire o liberare e, dall'altro, per metonimia l'insieme dei neo-schiavi, ovvero di tutti coloro che oggi non hanno un lavoro o, se ce l’hanno, ne rimangono vittime: pensiamo ai precari, ai “somministrati”, alle false partite Iva, ai soci di cooperative farlocche e fraudolente, ai lavoratori che si vedono contestate anche le pause per andare a pisciare. Il nostro romanzo intende fotografare questa realtà e lanciare un chiaro j’accuse contro i padroni. Che, si badi bene, non sono più soltanto i vecchi “padroni del vapore”, ma anche i signorotti di quell’élite culturale globalista che si riempie la bocca di buoni propositi diritto-umanisti, ma è la prima a beneficiare della soppressione dei più elementari diritti sociali della nuova “gleba”.
Progetti futuri. È una domanda d’obbligo, ma presuppone anche, nel vostro caso, uno sbilanciamento sui vostri rapporti personali. Quali sono gli spazi che Tersite Rossi pensa di esplorare ancora? Dove poggerà la sua curiosità?
In questo momento, detto in tutta onestà, siamo concentrati su Gleba e sulla volontà di far vivere il romanzo ben oltre i canonici tre mesi oltre i quali l’odierno mercato editoriale vorrebbe condannarlo a sparire dallo scaffale. Siamo piuttosto refrattari all’idea che un romanzo debba avere una data di scadenza imposta da un mercato ipertrofico e schizofrenico, che spinge chi scrive a scrivere ancora, e ancora, troppo spesso a discapito della qualità. Quindi al momento non ci sono progetti futuri, se non quello di rimetterci a scrivere solo quando riterremo di avere qualcosa da dire, e di poterlo dire prendendoci lo spazio e il tempo necessari. Nel frattempo, come sempre, ci guardiamo attorno e prendiamo appunti.