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Intervista a Thomas Gunzig

Thomas Gunzig - classe 1970, belga, già sceneggiatore di Dio esiste e vive a Bruxelles - racconta nei suoi romanzi pubblicati in Italia da Marcos Y Marcos la vita, le sue difficoltà e le sue finzioni insieme al ruolo della letteratura e dell’universo editoriale. E racconta anche di come coraggio e risolutezza possano mutare il corso del destino, anche quando sembra che non ci sia via d’uscita. L’ufficio stampa della Marcos Y Marcos – che ringraziamo – ci ha messo in contatto con il poliedrico autore in due occasioni negli ultimi anni, la prima volta durante un tour promozionale e successivamente in occasione della XXIII edizione di Pordenonelegge. Lui si è prestato con estrema cortesia a soddisfare la nostra curiosità e a rispondere, con sincerità e onestà, alle domande di Mangialibri. La foto è di Corentin Van den Branden.



Nel tuo romanzo Il sangue delle bestie parli di temi forti e complessi come patriarcato, di animalismo/animalesimo, di identità di genere, di femminismo: come ti sei approcciato a queste tematiche?
Ti do una risposta che potrebbe essere un po’ strana, ma è la più onesta. Quando comincio la stesura di un romanzo non penso mai alle tematiche che appariranno al suo interno. Quando comincio a scrivere un romanzo penso a una situazione drammatica, a un’idea che possa essere foriera di una storia che spero possa essere avvincente e interessi il lettore. E le storie che interessano i lettori non sono le tematiche: le storie che interessano i lettori sono piene di personaggi ben costruiti e di altrettante situazioni. Poi, sviluppando il romanzo, mi rendo conto che questo “attira” delle tematiche, ma queste non erano pianificate all’inizio. In questo caso, questa idea di vacca geneticamente modificata ha portato con sé, durante la stesura, le tematiche della dominazione mascolina, di genere, dell’animalismo; così come tutte le tematiche legate ai precetti sociali, all’avere un corpo “nella norma”, i precetti che definiscono cosa sono le coppie e cos’è l’amore, eccetera. Comunque, le tematiche non esistono prima della scrittura di un romanzo, arrivano mentre si scrive.

Il romanzo è ambientato in una città non specificata: c’è un motivo in particolare?
Sì e no. Non era necessario specificare in questo caso: avevo voglia di creare un luogo che fosse universale, una qualunque città dell’Europa occidentale: Bruxelles, Parigi o anche Milano. Penso che quelli del libro siano dei problemi che toccano alla stessa maniera tutte le persone che vivono in queste città. Avendo fatto diverse tappe e incontri qui in Italia, ho l’impressione che le tematiche dell’animalismo, del genere, eccetera sono assolutamente trattate alla stessa maniera. Ci si pone delle domande a riguardo, sono al centro del dibattito sia in Italia che in Belgio che in Francia che altrove. Per questo motivo specificare la città non era necessario.

Ne Il sangue delle bestie c’è una buona componente aneddotica personale, ci sono elementi autobiografici: l’età di Tom, così come l’origine del nonno. Perché questa scelta?
Penso che in ogni romanzo, anche quelli che hanno l’aria di essere più lontani dalla mia persona, c’è sempre dentro un pezzo di me. Semplicemente, a volte si vede di più, come in questo caso. È anche vero che la questione della discendenza ebraica non l’avevo mai trattata. Penso che sia venuta fuori durante la stesura di questo romanzo perché la scelta della storia, l’idea di questa vacca geneticamente modificata, ha finito per mettere sul tavolo la questione della discendenza: da dove viene questa vacca, chi sono i suoi antenati, come la sofferenza dei suoi avi si riflette su di lei. Così ho pensato che inserire un personaggio parte di un popolo che ha conosciuto molta sofferenza potesse essere uno specchio interessante. E ciò mi ha permesso di parlare in una certa maniera della mia esperienza, cioè quella di essere non un sopravvissuto, non il figlio di un sopravvissuto, ma il nipote di un sopravvissuto, cioè la terza generazione. E mi ha permesso di chiedermi se determinati traumi si ripercuotano all’interno del patrimonio genetico: come può essere il cacciare le vacche, che temono gli uomini da sempre. Allo stesso modo nell’anima delle persone che discendono da popoli che hanno vissuto e sofferto catastrofi, come i tutsi, o gli ebrei, magari sono insiti dei profondi traumi intergenerazionali.

Ma da dove viene invece quest’idea della vacca geneticamente modificata?
È una domanda tanto appassionante quanto complicata, perché equivale a chiedere “Da dove vengono le idee?”. E questo non lo sa nessuno. Se lo sapessimo, ci recheremmo sempre in questo luogo meraviglioso. Ma non lo sappiamo. David Lynch dice sempre che avere idee equivale all’andare a pesca: si prende la canna, ci si sistema a bordo del fiume e si attende, a volte poco, a volte molto tempo. Non si può fabbricare un’idea, non si può sapere quale pesce pescherai: non so dirti quindi perché ho avuto questa idea. Penso però che il vero lavoro di uno scrittore sia discernere tra una buona e una cattiva idea. A un certo momento ho visto passare questa idea lungo il fiume e mi sono detto che poteva servire per una buona storia.

E perché hai pensato che potesse essere una buona storia?
Perché è un’idea che mi ha divertito, mi sono messo nei panni del lettore e mi sono detto “Se mi raccontassero la storia di una vacca che somiglia a una donna e che si ritrova in una famiglia che non se la passa bene e che quindi viene sconvolta – tutto questo come lettore lo troverei divertente”. Ho pregustato sia delle scene che dei dialoghi buffi e spassosi; ho capito che mi permetteva di parlare di diversi argomenti; era una storia che avevo voglia di scrivere. Tra il momento in cui hai l’idea, capisci che questa è buona e poi scrivi effettivamente può passare molto tempo: si riflette sui personaggi, sul contesto… Sono tre anni che ho quest’idea: nel frattempo ho scritto Feel Good e altre cose. Semplicemente, mi è rimasta a lungo dentro prima di scriverla.

Nel tuo Feel Good affidi a Tom la tua definizione di “feel good book”, un libro che faccia stare bene e presenti la vita da un’angolazione positiva. Hai applicato tu stesso queste regole nella stesura del romanzo?
Scrivo romanzi da quasi trent’anni e mi è sempre stato detto che quello che facevo era oscuro e violento. Ho voluto allora scrivere un romanzo nel quale fossero presenti più o meno questi aspetti, ma che contenesse anche più luce. Il risultato è stato Feel good, che per certi versi segue la dinamica propria del genere, ma per altri versi è abbastanza fedele a quella forma di humor nero che a me piace molto.

In Feel Good Alice e Tom sono due perdenti: una ha perso il lavoro e l’altro è un romanziere che si dà molto da fare, ma senza successo. D’altra parte, Séverine - l’amica d’infanzia di Alice - è completamente diversa, appartiene a una famiglia abbiente ed è poco empatica. Che percentuale c’è di te nei tre personaggi?
Alice rappresenta tutte le mie ansie materiali. Queste ansie agiscono su di me in modo molto profondo, mi costringono ad agire. La paura della miseria mi costringe ad alzarmi la mattina, a lavorare tutti i giorni e a concedermi solo molto raramente qualche giorno di ferie. Quindi direi che sono per il 45% Alice. Tom è ciò che sono come artista. Ha questo desiderio, a volte contraddittorio, di essere perfettamente fedele a ciò che è e allo stesso tempo di ottenere un certo riconoscimento pubblico. È complicato, perché spesso il riconoscimento pubblico si ottiene solo facendo concessioni rispetto a ciò che vogliamo davvero raccontare. Direi che sono per il 45% Tom. Non sono mai stato veramente Séverine. O meglio, lo sono stato solo per brevissimi istanti, di cui in realtà mi vergogno un po’: quando ho firmato buoni contratti, che mi hanno dato l'illusione di avere un po’ di soldi e di sicurezza economica, ho sentito vagamente la facilità, il distacco, la tranquillità che derivano dal comfort materiale. Potrei essere al 10% Séverine.

Da dove nasce la tua esigenza di affrontare diversi generi letterari, e sempre in maniera piuttosto singolare, spesso cambiandone i codici?
Vorrei essere uno scienziato. Mi piacciono lo spirito e il metodo scientifico. Penso che il mio approccio alla scrittura a volte sia di tipo scientifico, nel senso che mi piace sperimentare. Quindi mi interessa comprendere un genere letterario così come si cerca di comprendere un fenomeno. E una volta compreso appieno, cerco di utilizzarlo per il mio lavoro. L’ho fatto con il genere horror nel libro 10 000 litres d’horreur pure. Modeste contribution à une sous-culture, con il poliziesco in Manuel de survie à l’usage des incapables e anche con il genere “Feel Good” in Feel good, appunto.

Ritieni che le ansie di Tom e Alice siano comunemente riscontrabili nell’uomo moderno o credi che i due siano particolarmente sfortunati e, diciamo, casi unici?
Ritengo che nella “classe media” le ansie di Alice e Tom siano molto presenti. Non conosco persone che non abbiano paura del domani, che non si sentano vulnerabili di fronte alle sfide dei grandi cambiamenti, che non si sentano impotenti di fronte alle crisi che stiamo attraversando. Non credo affatto che Alice e Tom siano casi unici.

Hai vissuto sulla tua pelle alcune delle loro angosce?
Sì, certo. Ovviamente. Le ho vissute e le vivo ancora, nel quotidiano.

Nel romanzo racconti alcuni aspetti legati al mondo dell’editoria, di cui in genere si preferisce tacere: la solitudine, la gelosia, l’incomprensione tra scrittori. Perché hai deciso di parlarne?
È una realtà che conosco molto bene. Mi ha sempre colpito come la gente non si renda conto che si tratta di un contesto in tutto e per tutto uguale alle più svariate realtà del mondo. Ci sono davvero gelosia, brutalità, cinismo. Ma ci sono anche fratellanza, ammirazione e altri aspetti interessanti. Credo che sia sempre giusto che un lettore sia messo a conoscenza di una realtà nella maniera più onesta possibile.

Che cosa occorre per fare di un libro un libro di successo?
Non lo so affatto e penso che nessuno lo sappia davvero.

Che cos’è scrivere, che cos’è la letteratura per Thomas Gunzig?
È qualcosa che cambia continuamente nel corso delle ore e dei giorni. È una grande gioia e anche un dolore, è qualcosa che voglio continui fino alla mia morte e qualcosa cui voglio rinunciare il prima possibile. È una ricerca costante, a volte è fonte di delusione e talvolta di immensa felicità. È l'occasione per cercare di capire il mondo, le persone e la vita. È un modo per essere qualcosa in più rispetto a se stessi. È un modo meraviglioso per trascorrere le giornate, ma è anche un lavoro che ti isola e a volte ti rende straniero al mondo. Allo stesso tempo, tuttavia, è un'attività che ti connette con chi ti circonda e con i tuoi lettori. Per concludere, penso sia il modo migliore che sono riuscito a scovare per cercare di essere umano.

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