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Intervista a Tim Weaver

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La telefonata di Tim Weaver arriva direttamente dalla sua camera d’hotel a Milano, dove sta soggiornando in occasione di BookCity 2019, cui ha presenziato per parlare del suo ultimo romanzo. E anche se sei al telefono, lo puoi quasi sentire quando a una persona brillano gli occhi parlando del lavoro che ama: questa l’impressione che fa il giovane autore inglese classe 1977. Uno che ha scritto decine di libri tradotti e venduti ovunque, ma che sente ancora l’insicurezza del principiante, che si meraviglia dei complimenti e che, soprattutto, tiene moltissimo al rapporto con i suoi lettori. Tim Weaver vuole stupire e ci riesce sempre, con una freschezza e un entusiasmo che sanno di romanzo d’esordio, ma che invece contraddistinguono uno scrittore che dal 2013 ad oggi ha scritto più di un libro all’anno, senza mai perdere un colpo. L’intervista con lui somiglia più a una chiacchierata tra vecchi amici, tra curiosità e ottimi consigli sulla scrittura.




Ad oggi, hai scritto ben 10 romanzi della serie di David Raker. Ti senti lo stesso scrittore (e ovviamente la stessa persona) che eri nel 2013?
Direi di no, perché quando ho iniziato a scrivere libri non avevo la più pallida idea di cosa stessi facendo. Non lo avevo mai fatto e avevo un’idea solo per il primo libro, Morte sospettaA: non ne avevo programmati altri, anche perché non sapevo se qualcuno avrebbe voluto pubblicare altri miei libri o se io ne avrei scritti. Ovviamente sognavo di diventare uno scrittore, ma al tempo stesso volevo rimanere coi piedi per terra: volevo solo provarci e l’ho fatto; è andata piuttosto bene e così ho dovuto iniziare a pensare ai prossimi libri. Più andavo avanti a scrivere la serie più accumulavo esperienza, anche dal punto di vista personale.

Quindi adesso ti senti più sicuro di te come scrittore?
Beh, credo proprio di sì, in un certo senso. Credo che la fiducia in questo caso abbia a che fare con il provare a sperimentare quando scrivi, allo scrivere cose più complicate nei libri. Io personalmente non mi sento mai del tutto sicuro di me, c’è sempre un dubbio: la storia sarà bella? I personaggi andranno bene? È una sorta di lotta costante, non credo che arrivi mai a sentirti sicuro, diventi solo più tranquillo nel provare nuove cose nei libri. Nella serie di David Raker i libri sono diventati sempre più ambiziosi in termini di trama. Quindi sì, credo di essere un po’ cambiato come scrittore nel corso dei 9 libri. Se non fossi cambiato, se non avessi imparato, non starei facendo bene il mio lavoro: c’è sempre da imparare, anche dopo 10 libri. Sto imparando a fare lo scrittore proprio come all’inizio della mia carriera.

E David invece? È una persona diversa adesso?
Assolutamente sì. Devo ammettere che quando ho iniziato a scrivere questa serie non avevo un progetto a lungo termine per lui e non sapevo che cosa gli sarebbe successo. Volevo scrivere una serie sempre sullo stesso personaggio perché avevo intenzione di esplorarlo nel profondo, ma non avevo le idee chiare su come David si sarebbe evoluto nel tempo. Non tutto ciò che gli succede nel libro è stato pianificato, fino a quando le cose non sono effettivamente successe: non sapevo cosa avrebbe fatto fin quando non lo faceva. Certo, David è cambiato durante la serie, in modi che non avrei mai nemmeno immaginato. Per esempio, non avevo pianificato che avesse una figlia. Un’altra cosa che non avevo messo in conto era l’ambientazione: all’inizio credevo che tutta la serie si sarebbe svolta a Londra, ma dopo i primi libri ho capito che avevo bisogno di allargare i miei orizzonti e considerare anche altre città. Queste sono tutte cose che non avevo programmato all’inizio della serie, ma che sono cambiate libro dopo libro.

Quindi per te la scrittura è un work in progress continuo? Quando scrivi un libro sai come inizia, ma non sai come finisce?
Sì, è vero: non pianifico mai i miei libri. Solitamente seguono lo stesso modus operandi e iniziano con una scomparsa misteriosa: so come sono scomparsi e dove si trovano, ma non sempre so il finale. Lo faccio perché credo che sia un modo più eccitante di scrivere: se mi mettessi a pianificare tutto nel minimo dettaglio allora scrivere non sarebbe più così emozionante. Come scrittore ho bisogno di sentire qualcosa, per questo scrivo thriller: sono libri che dovrebbero coinvolgerti, emozionarti, e se non sentissi queste cose in prima persona come scrittore, non sarei capace di sortire lo stesso effetto sul lettore.

È come se provassi la stessa cosa che prova il lettore leggendoti: non sai cosa succederà mentre scrivi, no?
Esattamente, ed è per questo che preferisco non pianificare niente: come scrittore, devi vedere il libro attraverso gli occhi del lettore. Il lettore passerà tutto il tempo senza conoscere l’intera evoluzione degli eventi, cercando di intuire cosa potrebbe succedere. Per questo credo che quando non programmi ogni singola parte del libro questo effetto sia meglio riuscito: se pianificassi tutto, per il lettore sarebbe più facile capire chi sospettare e il mio lavoro sarebbe molto più limitato. Non potrei più far prendere al libro svolte impreviste e sorprendenti: se segui un piano sai già esattamente cosa accadrà e quando, non c’è spazio per le sorprese. Un altro motivo per cui non pianifico i miei libri è che così facendo i personaggi prendono vita nel momento esatto in cui scrivo di loro: non farebbero cose sorprendenti o pazze, quella magia svanirebbe. Non sai mai come sarà quel personaggio fino a quando non fa qualcosa, è impossibile prevedere come si comporteranno. Sono quelli che io chiamo “organic moments” e non potrebbero esserci seguendo un piano. L’unico svantaggio di non seguire un programma è lo stress, ma penso comunque che sia il modo migliore per scrivere un libro.

In questo La verità su David Raker il tuo protagonista deve affrontare una parte difficile del suo passato. Perché hai deciso di parlarne?
È il nono libro della serie e in ogni libro c’è un tema ricorrente: la morte della moglie di David. La donna muore prima dell’inizio del primo libro e più si va avanti, più David inizia a sentirsi meglio. Cerca di guarire e lo si vede soprattutto nel settimo e l’ottavo libro: se la cava piuttosto bene, nonostante abbia perso la persona che amava di più al mondo. Poi, dal nulla, durante il nono romanzo il suo mondo crolla in mille pezzi. Il caso di una scomparsa su cui sta lavorando riguarda la defunta moglie: una donna che arriva alla polizia e sostiene di essere sua moglie e che, tra l’altro, le somiglia moltissimo e sa un sacco di cose che solo lei potrebbe sapere. Tutto questo porta a due domande: se quella donna non è sua moglie, perché le somiglia così tanto? Come fa a sapere tutte quelle cose? E la seconda domanda è: se quella donna è davvero sua moglie, che cosa ha da dire su David Raker? Se fosse vero, un evento simile rappresenterebbe la fine di un’era, la risposta a una domanda che è rimasta sospesa per tutta la serie: è davvero malato, psicologicamente parlando? Quella è la vera domanda di questo libro, il che ci porta a un altro interrogativo: se quella donna non è sua moglie, perché fingere di esserlo?

Capisco cosa intendi. Tornando a noi, prima hai menzionato Londra: perché l’hai scelta così tante volte come setting per i tuoi libri?
Probabilmente perché Londra è la città più eccitante di tutto il Regno Unito: puoi fare mille cose, è una metropoli enorme con 6 milioni di abitanti. Insomma, una città grandissima con una popolazione molto variegata: ci sono un sacco di zone che sarebbero perfette per un libro. Diciamo che Londra è l’equivalente inglese di un libro ambientato a New York o Seattle: una grande città con grandi opportunità per un thriller. Dovendo scrivere una serie, ho cercato di rendere ogni libro diverso dal precedente e uno dei problemi di usare sempre la stessa ambientazione e di scegliere un paesino è che sembra sempre la stessa storia. Mentre con una città come Londra ci sono un sacco di zone diverse e di cose da poter esplorare: il problema è minore, ma c’è comunque. Per questo, in certi casi ho deciso di ambientare i libri di David Raker in altre città o direttamente all’estero, perché anche il lettore più appassionato finirebbe per annoiarsi a un certo punto. Se scrivessi tanti libri diversi ambientati a Londra non sarebbe un gran problema, ma quando hai a che fare sempre con lo stesso protagonista nella stessa città, diventa difficile mantenere quel senso dell’ignoto. Mi piace avere una scrittura fresca e per questo, di tanto in tanto, metto Londra da parte. Ciononostante, Londra rimane comunque il posto più ovvio da usare come setting, perché fornisce un sacco di spunti.

Hai pubblicato molti libri, basti pensare che questo è il nono della serie di David Raker. Che consiglio daresti a un aspirante scrittore?
Moltissime persone sostengono di aver iniziato a scrivere un libro, ma solo poche lo finiscono. Penso che uno dei motivi per cui non arrivano alla fine è che dopo un po’ inizi a farti delle domande, a mettere in dubbio ciò che fai e per questo smetti. Tanti non finiscono di scrivere il loro libro a causa dei dubbi: perché inizi a pensare che quell’idea che ti sembrava tanto geniale all’inizio potrebbe non esserlo così tanto. Quindi, il primo consiglio che darei a quella persona è: non smettere mai, fino a quando non arrivi alla fine. E anche se non ti senti soddisfatto di ciò che hai scritto, o se effettivamente non è scritto molto bene, avrai comunque qualcosa di finito su cui poter lavorare. Il secondo consiglio che darei è: una volta finito di scrivere, prendi il libro, mettilo in un cassetto e lascialo lì per un po’, tipo tre o quattro mesi. Lascialo respirare e solo dopo, quando avrai avuto modo di prenderti una pausa da lui e di schiarirti le idee, sarà più semplice capire quali sono i problemi di quel libro. C’è sempre qualcosa che non va in un libro, io a volte trovo dei difetti anche dopo averlo fatto correggere al mio editor e continuo a trovarne anche dopo aver pubblicato 10 libri. È importante accettare che non sarà perfetto, ma posso garantire che dopo qualche mese sarà più facile vedere quali sono le parti da correggere. Insomma, questi sono i miei due consigli: finire il libro e poi metterlo da parte, senza mai smettere di editarlo. Continuare a scrivere e a riscrivere fin quando non sei soddisfatto.

La mia ultima domanda riguarda il tuo rapporto con David Raker. Vi somigliate?
Credo che alcuni tratti del suo carattere siano simili ai miei. In più, scrivo in prima persona, quindi il lettore entra subito nella mente di David Raker, cosa che non sarebbe del tutto possibile in terza persona. Il modo in cui lui vede il mondo e interagisce con le persone è molto simile al mio; in più, è un uomo molto emotivo e quel lato mi somiglia molto. Quindi sì, ci sono sicuramente alcune parti di lui che si riflettono in me. D’altro canto, lui è molto più coraggioso, più intelligente, quindi non siamo uguali, ma solo simili. Per quanto riguarda il mio rapporto con lui, qui in Italia ho pubblicato 9 libri su di lui, mentre nel Regno Unito è già uscito il decimo, ma quest’anno ho deciso di scrivere un libro al di fuori della serie. Lo sto trovando davvero difficile da scrivere, ma l’ho fatto perché ho scritto dieci libri su Raker uno dopo l’altro e volevo fare qualcosa di diverso. Avevo bisogno di prendermi una pausa da lui, per potermi schiarire le idee e tornare a quella freschezza a cui aspiro tanto. Pensavo che scrivere un libro non su Raker sarebbe stato divertente, ma è davvero dura, forse perché ormai con i suoi libri sono molto sicuro di me: so cosa sto facendo e cosa devo fare. Entro immediatamente nella sua testa, appena mi siedo davanti al computer. Questo libro invece è tutto nuovo, con personaggi mai visti e situazioni sconosciute. Non significa che i libri di David Raker siano semplici da scrivere, anzi, ma ormai io e lui siamo connessi. Fino a questo momento non credevo di avere un gran rapporto con lui, ma ora, dopo un anno senza libri della serie inizio a sentire la sua mancanza. Il che la dice lunga sul rapporto che ho con lui.

I LIBRI DI TIM WEAVER