
Generoso nel parlare di sé e del proprio lavoro; scrupoloso nel raccontare come le storie prendano forma nella sua mente e si completino attraverso la scrittura. Tita Prestini racconta la genesi del suo ultimo romanzo, poi la conversazione si allarga e ci ritroviamo a parlare di fonti storiche, trame, intrecci e routine di lavoro. Una chiacchierata davvero piacevole, da cui traspare l’amore dell’autore per la scrittura e la passione per le storie.
Terza indagine per il commissario Fabio Settembrini nel tuo Una breve estate lontano dalla polvere. Questa volta tutto inizia con un orso e con la scomparsa di un’archeologa. Ritieni che sia cambiato il personaggio nel corso dei romanzi? In che modo? E cosa lo rende, secondo te, così gradito ai lettori?
Certo, Settembrini è cambiato. Credo che l’evoluzione dei personaggi sia inevitabile e che l’autore debba in qualche modo limitarsi ad accompagnare la trasformazione delle figure che popolano i suoi libri. Succede con certi personaggi minori, che si modificano e acquisiscono peso e struttura nel corso di un solo romanzo. Inevitabilmente capita con il protagonista di tre romanzi, come in questo caso. Un autore ha sempre in testa il profilo del proprio personaggio principale: lui lo conosce benissimo, naturalmente. Poi succede che a volte gli debba far affrontare certe situazioni che arrivano alla sprovvista, non programmate perché nascono e si generano con gli sviluppi della narrazione e possono in qualche modo sorprendere persino chi le scrive.
Io non mi fermo a pensare, non mi chiedo: “Come dovrebbe risolvere il mio Settembrini questa situazione?”. No, per me non funziona così. Quando scrivo seguo il flusso della storia e io stesso vengo trasportato dall’onda. Quindi, lascio semplicemente che il mio personaggio agisca. Ecco, questo metodo di lavoro a volte genera cambiamenti importanti.
Non hai spiegato perché, secondo te, Settembrini piace ai lettori…
Penso che Settembrini piaccia perché è una persona assolutamente normale. E’ diventato poliziotto quasi per caso e perché figlio di un maresciallo della questura. Non è uno con la vocazione, né uno di quegli investigatori sicuri di sé, convinti che tutto si possa risolvere con una geniale intuizione. Non è muscolare né violento e non gli piace usare le armi. Lui è uno di noi: pasticcione, a volte. Confuso e insicuro, spesso. Un po’ malinconico, sempre. E alla ricerca di se stesso. Però nelle indagini è caparbio e determinato, attento ai dettagli perché possono fare la differenza. È un uomo intelligente e sa che solo il lavoro ben fatto porta ai risultati. Proprio la sua normalità è anche la sua forza.
Come nasce l’idea di portare Settembrini, il commissario che ama il cioccolato, a indagare lungo i sentieri dei “pitoti”, i graffiti preistorici della Valcamonica?
Vivendo sul lago d’Iseo, la Valcamonica mi è molto famigliare. Sono andato spesso a camminare su quelle bellissime montagne, frequento le incisioni rupestri da quando ero adolescente: allora esisteva un solo Parco, ma in ogni località della valle si poteva trovare qualche roccia sulla quale questi misteriosi antenati avevano lasciato la propria impronta. Inoltre sono convinto che dalle mie parti tutti discendiamo un po’ dai Camuni. Così, quando mi è venuta in mente una storia da ambientare in un posto isolato, ho subito pensato a una minuscola località della valle Camonica.
Le vicende del commissario Settembrini raccontano un periodo storico molto particolare e ricco di avvenimenti. Come riesci, durante la narrazione, a distaccarti dall’epoca nella quale vivi e ti muovi, per immergerti in quella in cui sono ambientate le storie, così diversa dall’attuale, anche a livello di mentalità?
Questo è proprio l’aspetto più affascinante dell’attività di chi scrive romanzi, diciamo così, storici. Devi sempre calarti nella realtà dei tuoi personaggi e, soprattutto, devi pensare come loro: riuscirci non è facile, però è parte del tuo lavoro. Nei mesi in cui sono impegnato nella scrittura di un libro, tutte le mie energie mentali finiscono lì. Guardo tutto in quell’ottica: quando mi faccio un caffè penso a come si faceva allora il caffè, quando sono a tavola penso alla tavola di quel tempo. È l’unico modo che conosco per restare sintonizzato con il periodo storico. Ma prima devi documentarti ed è necessario avere pazienza: bisogna leggere libri, sfogliare vecchi giornali e riviste, guardare film dell’epoca e ascoltare canzoni del tempo. Dopo questa fase è indispensabile entrare mani e piedi nel contesto, cioè nella vita quotidiana della gente di allora: quest’ultimo libro è ambientato nell’agosto del 1942 e in quegli anni c’erano la guerra e la dittatura, ci si dava del voi, i telefoni erano pochi e c’erano i razionamenti. Gli uomini in età da lavoro erano quasi tutti in guerra, nei paesi erano rimaste le donne, i vecchi e i ragazzi. In un piccolo borgo di montagna nel quale tutti si conoscono, inoltre, la vita era molto diversa da quella nelle città.
Come ti accorgi che un’idea può diventare la trama prima e l’intreccio poi di un romanzo?
Spesso l’idea mi arriva per caso - da un libro, da un articolo, da una chiacchierata, dalla radio o dalla tv - e mi prende all’amo come l’esca del pescatore cattura il pesce. Io abbocco e me la porto dietro, pensandoci qualche giorno, cercando di costruire nella mia testa un possibile sviluppo. Chi gioca a scacchi deve saper prevedere una dozzina di mosse prima di fare la propria. Chi scrive deve cercare di capire su quali strade potrebbe portarlo l’idea che gli è venuta, scartare quelle inutili o frutto dei propri deliri (tutti ogni tanto deliriamo un po’) e scegliere quella giusta. A volte funziona, a volte no e allora rinunci, altre volte decidi di insistere comunque, perché solo quando la metti nero su bianco sulla pagina puoi capire se hai inseguito un’intuizione sterile o se invece ci puoi lavorare proficuamente. Infatti tutto può cambiare durante la scrittura: un’illuminazione che pareva bellissima, improvvisamente si inaridisce e non produce risultati; mentre un’altra che nasceva solo da una battuta per un incipit diventa una trama forte, in grado di reggere un buon intreccio.
In che modo organizzi il tuo lavoro di autore? Segui una routine o scrivi solo quando ti senti ispirato? E prima di ogni romanzo prepari una scaletta o lasci che siano i tuoi personaggi a guidarti nella scrittura?
Io credo che un romanzo sia qualcosa di vivo che possa essere arricchito e sviluppato solo nella scrittura - nella pagina, come dicevo prima - spesso prendendo una fisionomia diversa da come l’autore l’aveva pensato. Io ho in testa la strada che la mia storia dovrà percorrere: non preparo una scaletta, mi appunto solo qualche idea. A volte le vicende che racconto e i miei personaggi mi prendono la mano, mi tirano per la giacchetta e mi conducono dove vogliono loro. Per esempio, ci sono personaggi che nascono come figure di contorno e poi crescono e si definiscono, fino a diventare coprotagonisti di un libro. Altri, sui quali ho riposto grandi aspettative, s’ammosciano e si spengono. E allora bisogna avere il coraggio di abbandonarli. Quanto al metodo di lavoro non seguo una routine precisa. Scrivo soprattutto quando ne ho voglia, seguendo l’ispirazione. Se la storia alla quale sto pensando preme per uscire, io la devo assecondare. E scriverla senza interrompermi. Quando invece sono in un periodo di aridità – e spesso succede - posso legarmi alla scrivania anche ventiquattro ore al giorno senza che venga fuori qualcosa di decente. Quindi lascio perdere: guardo un film, leggo un libro, vado a fare una passeggiata, a bere un bicchiere di vino con un amico e cerco di liberare la mente. Penso che intestardirsi sia controproducente.
Il personaggio seriale era nelle tue intenzioni già alla prima vicenda o, in qualche modo, è stato Settembrini stesso a imporsi e a chiederti di essere raccontato ancora e ancora?
Il personaggio seriale può essere un limite per l’ispirazione di un autore, ma è anche un compagno di strada che è bello ritrovare. Non era nelle mie intenzioni far nascere un commissario del quale raccontare le avventure in diversi libri, ma Settembrini mi è piaciuto e fin dal primo romanzo mi è stato subito simpatico, nonostante le sue contraddizioni e le sue insicurezze. O forse proprio per quelle. Così mi è venuto naturale farlo crescere e continuare a scrivere di - e con - lui.
I tuoi romanzi richiedono un’attenta e approfondita ricerca e raccolta di fonti. Si tratta forse della parte meno creativa del tuo lavoro. Ti appassiona comunque o, piuttosto, la subisci, perché necessaria affinché le tue storie siano verosimili e credibili?
Ne parlavo prima: questo tipo di ricerca richiede pazienza, ma è fondamentale e rappresenta una delle fasi che preferisco di questo lavoro, al punto che spesso mi perdo mentre mi sto documentando su un periodo storico. Talvolta, quando sto leggendo libri o consultando altre fonti, inizio a seguire rivoli di storia minore che magari non sono utili per il romanzo, ma che attirano la mia curiosità. Grazie alla fase preparatoria dei miei libri scopro cose che non conoscevo e dalle quali a volte nascono altri spunti. Per esempio, anni fa nel preparare La doppia morte della compagna Sangalli, ho iniziato a documentarmi sulla tragedia di Bleiburg, una bruttissima storia di guerra, una strage di popolo avvenuta al confine tra Slovenia e Austria nel maggio del 1945. Sono stato molto colpito da questa vicenda, al punto che recentemente ho dovuto scriverne in un romanzo breve, intitolato La prima legge di Aguirre e nel quale non c’è Settembrini, ma un partigiano di nome Nuvola, un altro di quei bei personaggi che – solo con le proprie forze – si fanno largo nelle storie.
Il bambino che sei stato sognava già di diventare scrittore o si è trattato di un percorso maturato nel tempo?
Da ragazzino avevo intenzione di fare l’avvocato. Per le strane circostanze della vita sono invece diventato giornalista e ne sono contento, perché da quel mestiere si è sviluppato e affinato il mio gusto per la scrittura.
Che lettore sei? Quali sono i generi che preferisci e quali invece non ti appassionano?
Penso che prima di mettersi a scrivere sia necessario essere buoni lettori. Da giovane ero un lettore onnivoro, metodico e infaticabile. Se un autore mi piaceva non avevo pace finché non divoravo tutti i suoi libri. Inoltre, dopo aver iniziato un romanzo lo finivo a qualunque costo; ma ora no, ho meno tempo e sono diventato più esigente: arrivo in fondo solo ai libri che mi piacciono.
Anche oggi però leggo di tutto e non sono legato a un genere, piuttosto sono legato alla scrittura e all’idea. Ho gusti intermittenti e variabili: mi piace il dolce e mi piace il salato; il leggero e il pesante. Sono curioso, e penso che un libro ben scritto mi possa sempre insegnare qualcosa. Poi ho un altro difetto, non inizio mai un libro solo: due sono il minimo, spesso tre o quattro.
A cosa stai lavorando in questo momento? Settembrini ha ancora qualcosa da raccontare ai lettori?
Sì, ho alcune idee per Settembrini, poi vedremo se ne uscirà qualcosa di convincente. Da qualche tempo sto lavorando a due storie, una ambientata a Milano negli anni Cinquanta, ma che rimanda ad alcuni episodi dell’occupazione italiana dell’Etiopia. Un’altra collocata in Toscana nei primi anni Sessanta, nei dintorni di una base militare americana. C’è sempre Settembrini di mezzo. Ho in ballo da tempo questi due progetti, ma ho dovuto lasciarli perdere per occuparmi di Una breve estate lontano dalla polvere che voleva assolutamente essere scritto e insisteva per vedere la luce. Per molti mesi ha preteso che pensassi solo a lui. Ora devo rientrare nei misteri e nella vita dell’Italia degli anni Cinquanta per riprendere in mano la prima delle due storie. Mi ci vorrà un po’ di tempo.
Un’ultima curiosità: quale parte del percorso narrativo preferisci? La prima stesura o la riscrittura?
Apprezzo moltissimo e considero fondamentale il lavoro di fino che si fa con la riscrittura. Ma senza dubbio preferisco la prima stesura: è faticosa e ti spreme, però è impagabile vedere il tuo romanzo crescere, passare dall’idea alla pagina, accompagnarlo mentre i capitoli aumentano e prende forma e consistenza. Poi, quando arrivi alla fine, provi la gioia creativa dell’artigiano che da un pezzo di legno informe è riuscito con pazienza a far nascere un mobile. È la soddisfazione più totale e assoluta che si possa trovare nel proprio lavoro.