
Toni Capuozzo è un volto e una voce. Ed è un volto e una voce anche quando scrive, tanto forte è la riconoscibilità del suo stile. In occasione di Pordenonelegge 2023 abbiamo chiacchierato di giornalismo e di ideologia; di modernità e di globalizzazione; di vincitori e di perdenti. E le parole dette si sono succedute alla parola scritta senza soluzione di continuità perché mentre preparavo l’intervista, leggendo il suo ultimo libro, era come se la voce di Toni, in sottofondo, ne recitasse il contenuto per me. Un volto, una voce; e una penna: strumenti di un artigianato di lusso che lascia ai soli fatti il compito di urlare.
Nelle prime pagine del tuo Nessuno più canta per strada scrivi di aver sempre mantenuto una distanza affettuosa tra il tuo giornalismo e l’impegno militante. Vorrei capire il perché di questo proposito e se pensi di esserci riuscito anche nei decenni successivi agli anni Ottanta, che sono stati anni di forte polarizzazione politica…
Ho cominciato la mia carriera di giornalista su “Lotta Continua”, che all’epoca era solo un giornale, non era ancora un’organizzazione politica. Ovviamente, però, era un giornale fortemente caratterizzato dall’ideologia politica. Io già allora scrissi delle cose che erano poco armoniche con l’ambiente in cui lavoravo. Penso ai pezzi che scrissi in occasione dell'esodo di massa di Mariel e dell’occupazione dell'ambasciata peruviana. “Il Giornale” di Indro Montanelli - Montanelli allora era inviso alla sinistra - riprese in prima pagina quello che avevo scritto, dicendo “Se “Lotta continua” scrive questo…”. Penso di essere stato distante già allora da un approccio militante, e pian piano mi sono spogliato di quello che mi restava dell'ideologia. Sono sempre stato uno che ha avuto una religione dei fatti. Qualcuno potrà dire che i fatti vanno interpretati. Ma a me, i fatti, piace raccontarli. I fatti hanno una loro forza, sono una specie di alimento della libertà.
Nelle parti introduttive ai capitoli in cui è diviso il libro fai spesso riferimento a questa tua dedizione ai fatti e alla tua attenzione per le piccole storie individuali. Ma questa tua attenzione alle piccole storie e alle miserie umane non è una forma di militanza, anche se non partitica e non ideologica?
Spesso qualcuno mi ferma per strada e mi dice “Lei mi piace perché è obiettivo”. Non è vero: io faccio un giornalismo molto soggettivo; e parte di questa soggettività deriva proprio dalla scelta delle storie che molto spesso riguardano i marginali, i perdenti. Loro sono i testimoni del mondo che mi interessa. Ricordo il periodo in cui cercarono di trasformare “Epoca” in una specie di “Capital”, in una rivista che raccontasse le fortune della classe imprenditoriale; che fosse in qualche modo la rivista della Milano da bere, dell’edonismo reaganiano. Beh, in quel periodo io lavoravo a “Epoca” ma mi sentivo un pesce fuor d’acqua.
Per me sono sempre stati più interessanti i perdenti, che non i vincitori.
A proposito della tua esperienza sia nella carta stampata sia in televisione, vorrei farti una domanda che formulo prendendo spunto da una frase di Giuseppe Pontiggia. Pontiggia scrive che “la lingua del telegiornale è un ibrido che non appartiene né al regno dell’oralità né a quello della pagina”; è “una sorta di oralità ridotta ai minimi termini”, come se le mancasse qualcosa sia rispetto alla lingua della pagina scritta sia rispetto alla lingua dell’oralità in senso proprio. Tu percepisci questa differenza? E quando scrivi un pezzo lo strutturi in modo diverso a seconda che la destinazione sia la carta stampata o la televisione?
Sono contento di aver avuto una lunga esperienza nella carta stampata e anche oggi posso dire di essere tornato alla carta stampata. Posso dire che aver lavorato a “Epoca” - che si ispirava al “Time” americano - è stata un’esperienza propedeutica a quella televisiva, è stata una specie di allenamento con la parola scritta e l’immagine. Le fotografie avevano un gran peso; non si tornava a casa fino a quando il fotografo non diceva “Ce l’ho, il servizio”.
Contava il testo, ma l’immagine fotografica non si limitava a illustrare il testo: era l'interpretazione della storia data dal fotografo. Questo modo di pensare al giornalismo della pagina scritta, ovviamente, mi ha aiutato molto quando sono passato a lavorare alla televisione. Credo di aver fatto televisione in un modo coerente con l’uso della parola scritta che mi veniva dalla gavetta nella carta stampata. Ricordo che una volta Giuliano Ferrara scrisse, a proposito di certi miei servizi, “Capuozzo scrive come parla e parla come scrive”.
Questo naturalmente aiuta, in televisione. La televisione è il vero mezzo di comunicazione di massa; deve prestarsi a duplici letture: deve soddisfare, allo stesso tempo, il professore universitario e il benzinaio; non deve sembrare troppo sempliciotta per l’uno e troppo complessa per l’altro. Il fatto di avere una scrittura che assomiglia al parlato (e questo anche nella carta stampata) è una cosa che mi ha aiutato a fare una televisione individuabile.
Poi, in televisione c’è anche la voce. Le persone mi riconoscono per la voce. Non ho mai fatto esperienze da attore, neanche nel teatrino del liceo o nella parrocchia, ma facendo televisione mi sono accorto che la voce è una componente importante e riconoscibile, accompagnata dalla scrittura. Me ne sono accorto, a esempio, il primo anno che feci “Terra!”. Ero semplicemente il conduttore, il responsabile era Lamberto Sposini. La formula prevedeva che i pezzi fossero doppiati. I miei pezzi erano doppiati da una voce molto bella, era il doppiatore che al cinema faceva De Niro, Pacino e altri attori famosi. Era una voce che a me piaceva molto. Ma non era la stessa cosa, e io stesso mi rendevo conto che l'incastro tra parola scritta, voce e immagine è quello che raggiunge il telespettatore e rende identificabile il tuo modo di fare giornalismo: lo puoi amare o odiare, ma comunque è un prodotto inimitabile.
Scrivi nel libro di essere spesso andato “a scovare una storia qualunque”, e di essere andato a cercarla “in posti dove sembrava non succedesse niente”. Scrivi anche che hai sempre avuto l’attitudine “a cercare un centro, o più di uno, che dia un senso a tutto il resto”. Questo tuo modo di raccontare piccole storie ambientate in un contesto è ancora possibile in una società come quella di oggi in cui tutti sembra accadere in rete? In cui non c’è quasi più distinzione tra centro e periferia?
Sì, hai ragione. Anche se è un’espressione che ormai ha fatto il suo tempo, è chiaro che viviamo in un villaggio globale. In Cisgiordania, i ragazzi sono vestiti come i ragazzi di Milano o di Treviso o di Palermo. Io sono cresciuto in un posto in provincia e in periferia. La periferia di una provincia è un mondo unico con caratteristiche diverse da altrettanti luoghi di altrettante periferie di altre province. Non che non ci fosse comunicazione, ma c’era molta meno comunicazione di adesso, e già andare nella città più vicina era come passare la frontiera senza rendersene conto. Oggi è tutto molto più omogeneo, più uguale. Secondo me, questo rende ancora più importante raccontare piccole identità, piccole differenze: è un modo di salvare l'identità e lo stile delle comunità e per fare in modo che le comunità non siano dei rulli compressori sugli individui e sulle comunità più piccole. Questo oggi è un obbligo per chi fa giornalismo. Certamente è molto difficile perché richiede tempo e richiede di violare le regole sacre delle scalette dei telegiornali. Oggi il giornalismo, non per causa dei giornalisti ma per come sono andate le cose, è molto fast food: consumi, ma poi non sai come va a finire una storia. A esempio, la bidella che faceva la pendolare tra Napoli e Milano dov’è finita? Ci sono parti intere del Paese dove apparentemente non succede niente, poi a un certo punto si rompe la crosta e qualcosa succede; però nessuno ha saputo raccontare quei luoghi prima. Oggi penso che sia molto importante provare a fare questo lavoro a risanare; come tutti i lavori artigianali richiede la pazienza e il tempo. Questo è antieconomico perché se io dovessi campare oggi con quanto viene pagato un articolo locale morirei di fame. Oggi ti chiedono di fare in due giorni sette pezzi. Siamo in un’epoca in cui c'è una produzione di massa, però molto anonima, uguale, intercambiabile; in cui a distinguere i giornali non è il tipo di giornalismo ma sono i titoli e l’ideologia che sta dietro. Non è lo stile del singolo giornalista a essere identificabile. Io da ragazzino leggevo un articolo e riconoscevo l’autore senza leggere la firma perché era inconfondibile lo stile; era riconoscibile un certo modo di raccontare. Oggi è tutto molto più standardizzato; non dico che un articolo puoi scambiarlo con un altro ma è molto difficile leggere una storia e dire questa sicuramente una storia - che so - raccontata da Ettore Mo (che era un grande giornalista del “Corriere della Sera”). Nell'epoca del fast food e dell’ipermercato credo che sia importante che qualcuno resista come artigiano o come piccolo alimentarista.
A proposito delle piccole storie artigianali, nel libro citi la vicenda dello smemorato di Collegno e parli della memoria delle storie che hai raccontato. Qual è il tuo rapporto con il ricordo delle tantissime storie individuali che hai raccontato? In particolare di quelle dolorose che hai visto durante i conflitti?
Com’è ovvio ci sono delle cicatrici della memoria, però, diciamo per ottimismo tendo a pensare di più ad altre storie. A esempio, per me una storia viva nella memoria è quella dei minatori cileni che poi riescono a risalire in superficie; oppure, tra le storie del libro, la storia di quello che si costruisce la casa a forma di nave. In questa storia c’è un po’ di inganno a se stesso ma è una storia che mi fa sorridere. Ci sono storie che mi hanno segnato, e insegnato, tante cose. Ogni tanto faccio anch'io una mia Giornata della Memoria e del ricordo. È un po’ come quando hai vissuto un terremoto; ogni volta che c’è un terremoto da qualche altra parte, anche a migliaia di chilometri di distanza, è come se una cicatrice tornasse a fare male. Ma poi il sipario si chiude.
All’inizio del libro scrivi che gli anni Ottanta - che sono gli anni che racconti nel libro - sono stati gli anni in cui la televisione cambiava il paese ma non aveva ancora cambiato te. In cosa pensi di essere cambiato a causa o grazie alla televisione?
Io ho fatto spesso un giornalismo povero, mentre la televisione mi ha dato sicurezza economica e un po’ di notorietà. Mi ha reso anche più facile lavorare. Per me arrivare in televisione è coinciso anche con grandi cambiamenti tecnologici. Il giornalismo di quegli anni era un giornalismo senza telefonino e senza internet, in un mondo che sembra preistoria. Come cronista raccontavi le cose che avevi visto e che ricordavi. Con la televisione sono entrato in un mondo di telecamere ma anche di telefonini, rete. Il mondo della modernità: una parola che oggi suona antica.