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Intervista a Valerio Massimo Manfredi

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Scrittore, saggista, sceneggiatore e archeologo classe 1943, Valerio Massimo Manfredi narra di storia e di storie, non limitandosi a raccontarle ma vivendole e facendole vivere. In ogni luogo da lui descritto c’è storia, ogni personaggio da lui presentato è storia. I suoi numeri sono da record: 5 milioni di copie vendute solo con la trilogia di Aléxandros, tradotta in 35 lingue e in 76 Paesi. Corre l’anno 1985, quando durante uno scavo, gli viene l’idea di una storia da raccontare e da scrivere. Con la complicità di Alcide Paolini, dirigente della Mondadori, nasce il suo primo romanzo e con esso un celebre scrittore, che raggiungo telefonicamente e che con grande garbo, cortesia e competenza risponde alle mie domande.




Cosa ne pensi del periodo storico che stiamo vivendo?
Non ne penso bene, perché ci sono all’orizzonte delle situazioni che oserei definire catastrofiche. Il problema climatico ha assunto degli aspetti spaventosi: pensare che in pochi anni la calotta polare possa svanire è veramente da panico, assistere in Val Padana allo sfogo di un tornado che scoperchia le case è una cosa nuova, mai vista in tutta la mia vita. Io sono della generazione che ha assistito alle grandi nevicate: quando ero piccolo e andavo a scuola, la quantità di neve caduta arrivava oltre il ginocchio, a mezza coscia e finché non passava quella che noi chiamavamo la poiana, cioè lo spazzaneve, non si poteva uscire di casa. Non è solo questo l’aspetto preoccupante: il mondo, dal punto di vista umano, sembra essere impazzito. Io non sono un catastrofista, sono abbastanza ottimista, lo sono sempre stato. Ho sempre avuto una grande fede nel mio Paese, ma non posso non rimanere perplesso quando vedo degli uomini, che a un certo punto, quasi per magia, arrivano ai massimi vertici. Parlo di gente che non ha mai visto un libro o quasi, gente che non ha mai sostenuto un esame universitario (non che sia necessario e obbligatorio, per carità, ma…), gente che non ha la minima conoscenza di quella che è l’economia e la sua gestione, di quella che è la gestione dei debiti e dei crediti, che poi non è altro che la lista della serva. Io sono un padre di famiglia e mi ritengo un buon padre di famiglia, perché ho imparato a mia volta da mio padre a esserlo, prendendo esempio comunque da entrambi i genitori. Non faccio mai il passo più lungo della gamba, so benissimo che se facessi debiti poi creerei dei creditori, perché è chi fa i debiti che crea i creditori: non esiste il cattivo che vuole massacrare chi ha preso in prestito dei soldi. Io ricordo mio padre che a un certo punto si è trovato in una situazione molto difficile: i proprietari di possedimenti agricoli cospicui, quando la domenica mattina lo incontravano, gli dicevano: “Dino se hai bisogno di una mano io sono qui, perché tu sei un galantuomo, tu sei una persona per bene, quindi se hai bisogno di soldi non ti preoccupare, dimmelo perché io te li presto volentieri, tanto so che me li restituirai appena ti sarà possibile”. Questa è una cosa meravigliosa! È assurdo pensare che oggi ci sia gente al mondo convinta di accumulare debiti, senza che prima o poi qualcuno vada a battere cassa. Quando questo inevitabilmente succede, quel qualcuno viene visto come una specie di vecchio malvagio che vuole la fine degli altri, che vuole la fame altrui. Altra cosa che fa male è vedere il degrado della scuola: è una cosa terribile, come è una cosa altrettanto orribile leggere, anche su testate importanti, degli strafalcioni, non sempre, qualche volta per carità, (ma è anche troppo una). Vogliamo parlare di quello che succede a livello internazionale? Stiamo conoscendo un modo moderno di fare guerra: lo scontro economico, per esempio, tra due colossi come la Cina e gli Stati Uniti d’America. In questa situazione già di per sé precaria, c’è chi se la prende con l’Unione Europea e vorrebbe disfare e demolire il più audace esperimento politico di tutti i tempi. Un esperimento nato da popoli che si sono massacrati a vicenda per mille anni, con guerre continue ed endemiche e che a un certo punto si sono seduti intorno ad un tavolo e hanno detto “basta”. Abbiamo avuto due guerre mondiali con milioni di morti, si parla di sessanta milioni di morti e finalmente hanno detto “basta”: quindi tutto questo non conta? Arriva un giovanotto e dice che bisogna buttare via tutto, ma come si sono permessi e cose varie… È chiaro che i Paesi con maggiore peso specifico hanno anche maggiore influenza, ma se noi non ci facciamo rispettare, cosa ci aspettiamo? Farsi rispettare non vuol dire battere i pugni sul tavolo, vuol dire ben altro: vuol dire mantenere la parola, vuol dire governare la cosa pubblica in maniera esemplare. La scuola, ai miei tempi, era un pilastro, una colonna portante: la signora maestra prima e i professori dopo, per me e la mia generazione sono stati personaggi di grande peso, di cui ci si poteva fidare. Adesso a cosa assistiamo? Li vediamo derisi, battuti, picchiati nelle loro stesse aule, non solo da alcuni giovinastri, ma anche dai loro genitori. Se durante un colloquio qualcuno avesse riferito ai miei genitori di gravi mancanze comportamentali da parte mia, mio padre mi avrebbe massacrato di botte! Io ovviamente non voglio un mondo dove si picchiano bambini e ragazzini, che sia chiaro; mio padre non mi ha mai toccato, anche perché non c’è mai stato bisogno. Da piccolo poche volte, quando facevo cose assurde, tipo buttarmi con quello che io chiamavo paracadute, cioè con un ombrello da un’altezza di sei metri in fienile, allora sì che diventava severo perché poveretto mi voleva bene, non voleva vedermi morto o disarticolato. Vedere oggi che un allievo che ha preso un voto basso, probabilmente meritato, corre dai genitori che arrivano agguerriti a picchiare l’insegnante, dando così ai loro figli un pessimo esempio, è estremamente preoccupante. Nonostante tutto questo io ho fede nel nostro popolo e nel nostro Paese, perché la fede è quello che ci salva. Quando sono pensieroso, mi basta andare in giro e vedere le bellezze paesaggistiche d’Italia: ci sono campi meravigliosi tenuti come dei giardini, in tutte le parti del Paese o quasi. Poi ci sono i grandi problemi, come la morte degli ulivi in Puglia, una cosa che fa piangere. Mi sembra impossibile che ad oggi non si possa sconfiggere un bacarozzo. Io, però, sono ottimista, penso che possiamo farcela, ne abbiamo passate di tutti i colori. Possiamo sempre farcela.

Oggi c’è una cospicua produzione di romanzi storici e nonostante questo i numeri parlano di una forte distinzione del tuo romanzo storico dagli altri. Mi aiuti a capire il valore aggiunto che c’è nei tuoi libri e soprattutto quale fatica si nasconde dietro ogni tuo scritto?
Innanzitutto vorrei specificare che tutti i romanzi sono storici e che nessun libro è estraneo alla storia. Detto questo, per scrivere un libro ci vuole immaginazione e creatività. Io posso scriverne anche uno totalmente non vero, ambientato in età sufficientemente lontana da noi tanto da essere considerato storico. Secondo me è tutto molto relativo e lo scopo di un’opera letteraria e tale credo che sia la mia opera, deve essere quello di comunicare soprattutto emozioni, più che dare nozioni. Le nozioni si acquisiscono nelle aule universitarie, si acquisiscono attraverso i manuali di storia, attraverso la lettura di articoli scientifici o frequentando le biblioteche, per esempio. La storia è memoria, è il tentativo dell’umanità di creare una memoria comune del genere umano, anche se non condivisa da tutti. La memoria si converte in identità e quindi la storia intesa in questo senso è materia delicatissima, perché prima significa memoria e poi identità. Nessuno può vivere senza identità, nessuno può assumere una identità sbagliata. Faccio un esempio molto semplice: Hitler ha basato su una frase di Tacito la sua politica razzista, laddove Tacito della Germania ha detto: “I germani sono simili solo a loro stessi”. Hitler ha preso spunto da questa affermazione, per poter asserire che i germani costituiscono una razza a sé. Non c’è nulla di vero in questo, né Tacito intendeva esprimersi in questo modo, semplicemente perché i romani non sono mai stati razzisti. Roma è nata multietnica, costituita da latini, etruschi, sabini e altri. Il comandante supremo dell’esercito di Traiano era nero e si sa anche dell’esistenza di un imperatore arabo, per esempio. Se si andasse oltre quella frase, si leggerebbe un messaggio diverso e si capirebbe che Tacito ha parlato di un Paese, inteso come ambiente e paesaggio, talmente brutto che nessun altro riuscirebbe a vivere in quel luogo, se non chi ci è nato. Un’affermazione ironica, di quelle che devono far sorridere sostanzialmente. Noi non possiamo fare a meno dell’identità, possibilmente quella vera o quantomeno quella più vicina alla verità. È altrettanto vero che abbiamo bisogno di emozioni. Se nessuno può vivere senza identità, nessuno può vivere senza emozioni. Una vita piatta, un mare senza onde, una calma mortale, fatale, sono insopportabili: a un’esistenza senza mai un’increspatura, senza mai un movimento o una tempesta, non sopravvive nessuno. Alla base di molti suicidi c’è la noia mortale di una vita sempre identica a se stessa, ogni giorno di ogni anno, di ogni secolo, tutto sempre uguale. La letteratura e la poesia rispondono a tale necessità. Dante non è andato all’Inferno, non è nemmeno andato in Purgatorio e nemmeno in Paradiso, in quell’Eden che tutti speriamo ci sia. Nonostante non ci sia mai stato, Dante Alighieri ha creato il pilastro della letteratura universale. Omero sapeva benissimo, come lo sappiamo noi che non esistono i ciclopi e che non sono mai esistiti, non esistono le sirene e non sono mai esistite, ma senza l’Odissea saremmo poveri, infinitamente più poveri. Quel racconto è il più bello di sempre: nel suo protagonista ci riconosciamo tutti. Io tengo presente questo quando scrivo: tutto quello che è acquisito come autentico deve esserci. Una sera sono stato ospite di Fidel Castro al Palazzo della Rivoluzione e durante una cena, con il dito puntato sulla mia trilogia di Alessandro mi ha chiesto: “Quanto c’è di storico e quanto c’è di immaginazione in questo romanzo?” E io ho risposto: ”Tutto quello che è storico è in questa opera, il resto è mio”. Lui mi ha guardato e ha pronunciato un sonoro: “Soddisfacente”.

Il tuo Quinto comandamento si stacca dalla storia antica, presentando un eroe vicino ai nostri tempi. Perché questa scelta e perché hai deciso di parlare di un personaggio così particolare?
Non è il mio unico libro ambientato in epoca moderna o quanto meno abbastanza vicina alla nostra. Otel Bruni, per esempio, è ambientato nel ‘900: di libri, la cui storia si colloca nel terzo millennio ne ho scritti diversi. Diciamo che dopo Alessandro, che ha avuto un successo planetario, sono stato un po’ inchiodato al romanzo dell’antichità. Non è così in realtà: quasi la metà dei miei libri vivono in età moderna o assai vicina all’età moderna. L’oracolo narra della notte in cui è avvenuto l’assalto al Politecnico di Atene, quindi nel 1973 e tra l’altro io era là. La storia di Chimaira si svolge a Volterra nei nostri anni, quelli attuali, La Torre della solitudine si colloca negli anni ‘30 nell’Africa nord orientale, Palladio è invece ambientato a Pratica di Mare vicino a Roma negli anni ‘80 e potrei continuare. Questo mio ultimo narra di una cruenta vicenda accaduta negli anni ‘60. Il motivo per cui io l’ho scritto, risiede nella voglia e nella necessità di informare su avvenimenti storici sconosciuti alla maggior parte dell’umanità. A dire il vero, mi aspettavo, dopo la pubblicazione, un’attenzione o una qualche reazione da parte de “L’Osservatore Romano”; in realtà non è arrivata nemmeno una virgola da parte loro. Tornando alla stesura del libro, ho avuto la fortuna di avere un testimone vivente e diretto, padre Angelo Pansa, alla cui figura mi sono ispirato per dar vita al protagonista di Quinto Comandamento. Ho avuto svariati colloqui con padre Pansa prima di iniziare a scrivere il libro, che ci tengo a precisare non essere un saggio. Per la narrazione di questo romanzo, ho scelto il registro epico, perché è epico, ma quello che dico è praticamente tutto vero, a parte quelle cose che sono di immaginazione, anche se non completamente, come una parte dei dialoghi, per esempio. In realtà alcuni dei confronti e alcune battute contenute nel racconto, me li ha riferiti il sacerdote stesso, che negli anni ha tenuto un diario. È un’opera che sceglie il registro epico e al tempo stesso sceglie di raccontare in massima parte la verità.

Come scrittore, nel tuo Quinto comandamento, rimani sopra le parti, narrando del protagonista che abbraccia croce e fucile, fede e violenza. Mi interessa sapere il tuo parere sul dilemma che da sempre affligge l’umanità: è giusto uccidere per difendere o difendersi?
Se non c’è altra via di scampo sì. Io mi immagino camminare per la strada e vedere una scena di violenza contro una persona incapace di difendersi. Se io vedessi una cosa del genere, non potrei girarmi dall’altra parte, sarei complice di quei malviventi. Hic et nunc: qui e ora. Padre Pansa è una persona tranquilla e amabile, ma è anche un uomo. Un uomo che si è trovato ad assistere, in Congo nel cuore degli anni ’60, alla violenza più nera della guerra civile: ha visto corpi di amici squartati, con il fegato o il cuore divorati, ha visto bambini con la testa fracassata. Questo sacerdote non ha, comunque, mai avvallato la violenza. Durante la prima operazione hanno liberato settanta ostaggi, in soli sette minuti e lui è sempre andato avanti per primo. È vero hanno ucciso, ma per liberare persone dalle violenze più efferate. Cos’altro avrebbe potuto fare? Agire o pregare? Certo la scelta di stare nelle chiese con il rosario in mano è una trovata molto comoda, mente gli altri muoiono, mentre gli altri vengono torturati, mentre gli altri vengono straziati. Io ho visto tutto, ho visionato la documentazione fotografica di situazioni spaventose. Quando il sacerdote venne convocato dal Nunzio Apostolico, gli fu chiesto cosa pensassero i suoi superiori delle situazioni da lui descritte. La sua riposta fu esplicita “Dicono che dobbiamo pregare e che ci penserà la Divina Provvidenza”. Alla Divina Provvidenza, però, bisogna dargli una mano a volte e lui si è sentito di dare quell’aiuto. Quindi, con il tacito consenso del Nunzio Apostolico (gli avevano chiesto di rispettare il quinto comandamento, ma come avrebbe potuto?) ha agito, spesso sparando, perché si è ritrovato sotto una grandine di fuoco incrociato, ma non ha mai preso la mira alla testa o al cuore di un uomo, rischiando così la propria vita. Quando l’anno scorso l’ho presentato a Pordenone Legge, alla fine della mia disquisizione, una persona ha detto:” Un uomo che arruola mercenari li arruola perché uccidano”. Padre Pansa si è alzato e ha replicato:” In realtà li arruola anche per morire. Su cinquanta ne ho persi 38 e quel sangue è il loro battesimo”. Quegli uomini hanno salvato 1582 ostaggi che sarebbero stati massacrati, torturati, accecati e mutilati. Si può optare per la non violenza e pregare, ma è la scelta dei vili e dei codardi che vedono la sofferenza immensa dei propri simili e si comportano come se nulla accadesse. Padre Pansa ha poi aggiunto:” Io spero un giorno di essere davanti alla porta del Paradiso e lì chiederò se dall’altra parte ci sono i miei uomini, quelli che hanno dato il loro sangue per salvare degli innocenti e se non dovessero esserci non ci entrerò nemmeno io”. L’ovazione di circa settecento persone, in seguito a quella frase, rimane per me indimenticabile. Hic et nunc: qui e ora.

I LIBRI DI VALERIO MASSIMO MANFREDI