È bello incontrare Vanna Vinci, grandissima fumettista, illustratrice e scrittrice – cagliaritana di nascita e bolognese d’adozione – e sedermi a chiacchierare con lei in un clima così piacevole e rilassato. Siamo allo stand di Bao Publishing, tra pile di fumetti dalle cover coloratissime. Intorno a noi la folla di Tempo di Libri 2017 sciama senza soluzione di continuità. Ogni tanto qualcuno si ferma a osservarci con curiosità, origlia un po’, ci sorride. Sorridiamo anche noi, a tratti ridiamo proprio. È anche così che nascono le belle interviste. La foto è di Sandra Sisofo.
La storia editoriale di questo Aida al confine è articolata e viene da lontano: vuoi raccontarcela?
È iniziata a cavallo del 2000, uscì a puntate su una rivista che si chiama “Mondo Naif”, si inseriva nel filone di Granata Press e poi delle edizioni Kappa con il lavoro sull’estetica del quotidiano, lontana da avventura e fantastico, un filone che da allora non si è più esaurito. Poi è uscito in volume per Kappa e finalmente dopo un bel po’ di anni esce per Bao Publishing in questa edizione con una postfazione aggiornata. Se quindi Aida al confine per me è un libro vecchio in un certo senso, per quanto sia tra quelli per me più importanti perché credo che – come altri – sia una sorta di spartiacque, ci tenevo davvero molto a ritornarci su perché è una storia che mi riguarda personalmente.
Inevitabile chiederti di Trieste. Trieste triste, Trieste magica come la Praga di Ripellino, Trieste che definisci “una porta”. Che cosa rappresenta questa città per te?
Penso che se non fossi arrivata a Trieste quella volta non avrei mai scritto questo libro. Sicuramente c’è stato tra me e la città un corto circuito fortissimo. Tuttora io sento un trasporto particolare nei confronti di Trieste, mi trovo benissimo lì, sento di trovarci una sorta di nido. Di sicuro a Trieste si avverte fortissima questa sensazione di confine, che io non avevo mai provato prima. Da un lato l’Europa centrale, quello che fu l’Impero Austroungarico che si affaccia sul mare, dall’altro una porta che dal mare conduce verso l’interno. Per me in termini fisici Trieste è stata questa, mentre in termini spirituali credo veramente che abbia fatto scattare un meccanismo che era già presente dentro di me, legato alla mia storia familiare: lì vicino c’è il Carso, il teatro di molte battaglie della Prima guerra mondiale in cui ha combattuto mio nonno.
Dal punto di vista tecnico che sfida è stata disegnare Trieste? Con queste premesse “emozionali” non ti tremava un po’ la mano nell’affrontare un’ambientazione di questo tipo?
Sono andata più volte a Trieste, all’epoca c’era ancora la libreria del mio amico Dario Fontana che aveva un sacco di libri vecchissimi sulla città che mi ha regalato. Passeggiando per la città ho sviluppato una sorta di ossessione – che ho tuttora – per la questione urbanistica di Trieste. Quindi quando ho cominciato a disegnare la storia mi sono subito resa conto (ed è anche per questo che ho definito prima Aida al confine uno spartiacque) che la città non era più un fondale, era una coprotagonista. Disegnare Trieste mi dava un piacere quasi fisico perché era come entrare nella città e non c’era – almeno per me che disegnavo, non so se questa cosa venga recepita dal lettore ma per me era così – differenza tra disegnare i personaggi e disegnare la città. Trieste è una città complicata, ha molti palazzi monumentali rispetto per esempio a Bologna che ha dei palazzi più per così dire a misura d’uomo. È stata un’esperienza bellissima.
Più che una storia di fantasmi questa è una storia di memoria. La protagonista Aida scava nella memoria della sua famiglia spulciando tra foto e documenti, tu hai fatto lo stesso per scriverla?
Sicuramente la storia parte da dei documenti. Ma certo anche da ricordi di prima mano: ho vissuto con mio nonno che per tutta la vita ha fatto incubi sulla trincea, nel libro c’è anche una sottotrama legata alla famiglia di mio nonno. Però molto l’ho scoperto andando a spulciare nei ricordi che mi ha lasciato mio nonno: un documento risponde a degli insoluti – magari anche minimi, non c’è la pretesa di dare risposte ai grandi temi politici o sociali della Prima guerra mondiale, stiamo raccontando solo una storia personale, ma per me era importante farlo – e i documenti sono un po’ dei fantasmi per certi versi. Il fantasma nel cassetto. È il modo per far incontrare due generazioni che diversamente non avrebbero potuto incontrarsi, un artificio magico che rende possibile questo incontro.
In Sophia avevi affrontato il tema dell’alchimia, qui ci sono dei fantasmi – anche se del tutto particolari: hai un particolare interesse per l’esoterismo?
Sono totalmente scettica ed educata in famiglia ad uno scetticismo quasi “da Pippo”. Sono sicura che se mia madre incontrasse un fantasma gli direbbe “Lei ha dei problemi, si ricoveri!”. Ma il soprannaturale mi ha sempre interessato, l’alchimia è un interesse che ho ancora, mi affascina la questione dei simboli e del contenuto dei simboli. Del resto impossibile non interessarsi all’alchimia: non invecchiare, non ammalarsi, non morire sono temi e speranze che toccano ognuno da sempre.
Guardando indietro a tutti i tuoi personaggi ce n’è qualcuno a cui sei più legata, per qualche motivo?
Sicuramente tutte le storie e tutti i personaggi fanno parte di me, quindi faccio fatica a dire di essere più legata a una o all’altro. Se devo dire un personaggio che è me in modo abbastanza dispiegato è la bambina filosofica, questo sì. Dentro altri personaggi di cui ho disegnato e scritto come Aida o Sophia o Frida Kahlo ci sono cose mie, incastrate nella storia in modo che il lettore non si accorga più di tanto che si tratta di cose personali. La mia santa protettrice, la mia icona, il mio modello tra tutte le mie donne però è la Marchesa Casati, senza dubbio.
A quando un fumetto con un uomo protagonista?
Ho da tanto l’idea di lavorare sulla figura di Erich Von Stroheim, ho letto sette-otto biografie su di lui ma è una figura molto complessa. Un uomo che per tutta la sua vita non ha fatto altro che raccontare fantastiche balle, vivendo oltretutto una verità fantastica. La verità sommata alle bugie crea una storia narrativamente non proprio semplice, però sicuramente affascinante.