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Intervista a Veronica Raimo

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Schiva e sfuggente almeno quanto è carina, Veronica fa la traduttrice dall’Inglese, ha vissuto a Berlino e ha scritto un sacco di poesie. Ha pubblicato articoli per “Alias”, “il manifesto”, “le Monde diplomatique”, “accattone”, “Capitolium”, “XL di Repubblica”, “Roma c’è”. Collabora con “Work-out” e la rivista islandese in lingua inglese “Grapevine”. Attualmente lavora anche con il gruppo teatrale Teatro Instabile. No, dico.



Come nasce la scelta di raccontare le ipocrisie e le contraddizioni (estetiche, oltre che sostanziali) della società guardandole da un'agenzia di pompe funebri come fai tu nel tuo romanzo Il dolore secondo Matteo? Come stiamo messi oggigiorno a rapporto con la morte?
La rimozione della morte nell’attuale società occidentale non è certo un concetto che ho inventato io, e in questo senso l’agenzia di pompe funebri era il luogo perfetto da dove osservare la messa in scena della morte, con tutti i suoi riti corollari, e le relazioni sociali che si cementano in maniera paradossale quando si ha a che fare con un principio manifesto di dolore.

I tre protagonisti del tuo romanzo sembrano incarnare tre approcci diversi alla vita, tre possibili opzioni. Piano A, piano B, piano C. In quale dei tre ti riconosci di più?
Come approccio alla vita mi riconosco di più in quello di Filippo, nella sua tensione verso un assoluto effimero.

Le pratiche sadomasochistiche secondo te nascondono sempre un vuoto, una mancanza, una solitudine?
No, assolutamente no. Ovviamente possono diventare delle forme coercitive, ma non più di quanto possano diventare coercitive delle pratiche di sesso tantrico o di astinenza sessuale. Voglio dire, il problema è se si ragiona per modelli, per categorie. Ma a quel punto non è tanto una questione di solitudine o di vuoto, quanto di incapacità di emanciparsi da quel modello.

Per alcuni il processo di traduzione è una sorta di riscrittura di un romanzo, un processo creativo, e quindi il salto da traduttore a scrittore è in qualche modo naturale, facile. Sei d’accordo?
No. Io vedo le due cose abbastanza separate. Poi dipende molto dal tipo di libro che si traduce, in molti casi il margine di “creatività” è pressoché nullo, ed è anche giusto che sia così. È vero però che quando ti trovi a tradurre alcuni libri, soprattutto quelli che non ti piacciono, ti rendi conto di una serie di cose che vorresti evitare nella tua scrittura, e il rapporto conflittuale che si genera con il testo può tornarti utile in altri momenti.

Sei forse poetessa prima che qualsiasi altra cosa: ecco, perché secondo te della poesia tutti parlano bene ma nessuno si compra un libro di poesie?
In realtà non mi sento poetessa prima di ogni altra cosa. Comunque credo che la ghettizzazione della poesia sia un fenomeno fondamentalmente italiano. Esiste ancora questo strano pregiudizio per cui leggere una poesia, o ascoltare musica classica, o addirittura andare a teatro, siano delle esperienze esclusive, per pochi eletti. Una specie di forma resistenziale contro un nemico non meglio specificato, tanto che le persone che si occupano di poesia spesso non fanno che portare avanti questo pregiudizio. In altri paesi non è così.

Che lettrice è Veronica Raimo? Come ti approcci all’oggetto-libro e quali sono gli autori più importanti per te?
Mi approccio esattamente in questo modo: come di fronte a un oggetto. Poi, ultimamente sono abbastanza caotica, e spesso mi capita di non finire i libri. Un tempo ero molto più religiosa e devota nei confronti della lettura. I miei autori di riferimento in ogni caso restano Philip Roth, Céline e Francis Scott Fitzgerald.

I LIBRI DI VERONICA RAIMO