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Intervista a Víctor del Árbol

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Ex agente di Polizia della Generalitat de Catalunya, Victor Del Árbol ha da sempre voluto dedicarsi alla scrittura: ha esordito nel 2006 vincendo subito il Premio Tiflos de Novela. Appassionato studioso di storia, per i suoi romanzi, che sono tradotti in diversi Paesi, attinge a esperienze personali, come a quelle legate a dittature e guerre, eventi violenti che hanno un forte impatto sulla so-cietà, come sui singoli individui. Nel 2018 è stato nominato Cavaliere delle Lettere e delle Arti dall'Accademia di Francia, un’onorificenza riservata finora solo a un altro spagnolo, Arturo Pérez-Reverte. Lo abbiamo intervistato per parlare del suo ultimo romanzo, ma non solo.



Con dieci romanzi all’attivo, premi e riconoscimenti internazionali, che cos’è per te il successo e qual è la tua ambizione più grande come scrittore?
Quello che ho imparato del successo è che è una chimera meno dolorosa del fallimento. Alla fine, il successo per me come scrittore è vincere, romanzo dopo romanzo, pagina dopo pagina, l’impossibilità di trasmettere il mio pensiero, il tentativo un po’ folle di correggere la realtà per mezzo della letteratura. Quanto alla mia ambizione come scrittore, non è altro che la fratellanza con gli uomini, riuscire a toccare le corde delle emozioni, in qualunque parte del mondo. E lasciare qualcosa che valga la pena, qualcosa di buono, nel mio tempo.

La scrittura per te è più un processo di creazione o di scoperta?
Le mie motivazioni principali sono la curiosità e il desiderio. Tutto inizia, dun-que, con una domanda. Io scrivo mosso dal dubbio, non dalla certezza. Intuisco che lì ci sia qualcosa e voglio avventurarmici per scoprire di che si tratta. In questo senso, la scrittura è una scoperta. Ma, una volta catturata l’idea, la riformulo attraverso la finzione per renderla universale. Costruisco qualcosa a partire da qualcos’altro; in questo senso, la scrittura è un processo di creazione (o ricreazione).

Ne Il figlio del padre racconti tre generazioni di uomini di una famiglia in cui l’eredità tramandata di padre in figlio è fatta di colpa, odio, tradimenti, incapacità a comunicare e segreti: esiste una causa all’origine di tutto questo male?
Esiste la radice della memoria collettiva, dalla quale nessuno può scappare, che ci costituisce e ci dona una visione della vita. Nel caso di questi personaggi, queste radici parlano dell’orgoglio ferito, della lotta e dell’incapacità di trovare la gioia offerta dall’oblio. E, così come esiste una radice familiare, esiste anche una radice sociale. Ogni popolo, ogni Paese, è anch’esso figlio delle sue ferite. Il silenzio, la menzogna che diventa la verità ufficiale, l’accettazione di un destino che non si può cambiare, ci trasforma nei topi che seguono il pifferaio magico. Per rompere questa catena, l’individuo deve accettare il suo passato, ma deve anche imparare a lasciarlo andare.

La struttura della trama che alterna passato e presente può essere considerata una tua “firma”? Quali sono le prerogative di questa specifica scelta?
Mi piace l’alternanza narrativa che va oltre il flashback (che è un elemento più caratteristico della narrazione visiva) perché offre al lettore chiavi di lettura e una comprensione dei personaggi più profonde e complesse. Il passato e il presente creano un contesto più ampio quando vengono condotti nello stesso spazio narrativo.

Quanto influisce sul carattere universale della tua scrittura il fatto che Il figlio del padre è ambientato in Spagna, tra la Catalogna e, soprattutto, l’Estremadura, ovvero in uno spazio geografico ben specifico?
Si tratta della mia geografia emozionale, quella che mi costituisce, con tutta la mitologia, la verità e la finzione che costituiscono la nostra memoria. Tuttavia, quello che desidero, è uscire da questo spazio intimo per crearne altri in cui qualunque lettore, in qualunque posto si trovi, possa riconoscersi. Insomma, il mondo non è così grande né così differente, come si vede nelle mappe. Le emozioni connesse al paesaggio come personaggio, sono universali.

Per un romanzo che si sviluppa in un arco temporale ampio e in luoghi diversi, come organizzi il lavoro di documentazione, di raccolta delle fonti e la scrittura vera e propria?
Trascorro la maggior parte del tempo facendo ricerca, mettendo insieme informazioni, visitando luoghi e intervistando persone. Mi appassiona questo aspetto della scrittura, per rimettere insieme, poi, tutte queste informazioni, in-dividuare quello che è necessario raccontare e come farlo. Poi, viene l’elaborazione dei personaggi, la trama e il tema. E infine, come una barca pronta a salpare, arriva la scrittura.

È capitato anche a te, come ho sentito dire da altri scrittori, di perdere il controllo dei personaggi, quasi fossero animati da vita propria?
No. Io sono un demiurgo, e benché io possa dialogare con loro durante il processo di scrittura del romanzo, io e i miei personaggi abbiamo un accordo: si arriva insieme fino alla fine.

E che cosa succede dentro di te, quando, al termine di un romanzo, devi “lasciar andare” i personaggi?
Ti confesso una cosa. Se i miei personaggi vivessero in una città immaginaria e io vi passeggiassi per le strade, li riconoscerei tutti, uno per uno e loro riconoscerebbero me. Non li lascio andare mai e ogni volta che un lettore li recupera, io sorrido perché so che sono vivi.

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