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Io come Pinocchio

Io come Pinocchio

Francesco ha sedici anni ma non è un ragazzo e dai quattro anni non è più stato un bambino, ha deciso di trasformarsi in un pezzo di legno come Pinocchio, il protagonista dell’ultimo giorno felice della sua vita. Laddove le case dei suoi coetanei sono tappezzate di foto con famiglie felici e torte di compleanno, l’unica foto esposta in casa sua lui ce l’ha sul comodino: mamma e papà che lo stringono in mezzo a loro durante una visita a Collodi, ciascuno felice a modo suo ‒ chi in maniera radiosa come lui e la sua mamma, chi in maniera più ritrosa, come il suo babbo. Al rientro da quel giorno perfetto tutto è finito: lui ha ucciso sua madre che gli era seduta accanto e ha finito per fargli scudo col proprio corpo tra le lamiere contorte dell’auto impazzita e quindi non merita di essere felice, sente, invece di meritare tutto quello che la vita gli riserva da quel momento in avanti: l’anaffettività di un padre assente, l’incomunicabilità di una nonna taciturna, le angherie, i soprusi, gli insulti, le percosse, gli abusi di cui lo fanno oggetto i DUE. Un burattino non soffre, non ha emozioni, non sente il dolore delle ossa rotte, il caldo dell’urina (propria o altrui) che lo imbratta, è sordo alle risate del prof. di educazione fisica, non risente il fatto di non essere stato toccato, se non dai DUE da quando sua madre è morta; un burattino ha bisogno di una fatina per diventare un bambino e quando nella vita di Francesco appare Erika che con il suo coraggio, la determinazione e la dolcezza lo mette e si mette in guai seri…

Sono ruvidi, ammaccati, “danneggiati” i protagonisti di Io come Pinocchio e grazie alla bravura dell’autrice ciascuno esibisce il marchio che la vita gli ha lasciato sulla pelle: la memoria delle scudisciate sulle gambe per Erika, la cruda fisicità del dolore in tute le sue sfumature per Francesco, la perdita del migliore amico per Luca. Ciò in cui Yuri Leoncini, col suo stile secco e graffiante, eccelle è rompere gli schemi narrativi che vogliono spesso e volentieri rappresentata la sofferenza delle vittime a fronte della crudeltà dei carnefici. L’autrice espone le ferite di tutti con spietata chiarezza e allora ecco che le fragilità dei bulli Rosario e Filippo hanno diritto di cittadinanza nel libro quanto quelle delle loro vittime, e i vissuti sofferti dei genitori si riverberano sulle scelte dei figli fino a trasformarli, tutti, senza distinguo tra buoni e cattivi, in qualcosa di diverso da ciò che avrebbero avuto le potenzialità per essere. La Leoncini ha definito il suo romanzo un pulp, ma è qualcosa di più complesso, è un’opera che poco si presta agli incasellamenti classici, è una radiografia di anime malate: e non ci saranno pilloline di zucchero e fatine in grado di sanarle.