
“E Mimì pensa che li ammazza tutti. Tutti, se non se ne vanno, se non se ne vanno da lì, se non lo lasciano da solo, in quella sala, Mimì fa un macello, li ammazza tutti”. Fa caldo, molto caldo, in quella sala che fino a quel giorno ha visto solo momenti belli, vino e amici, progetti e risate; “tutto suda, e una bara, chiusa, circondata dalle sedie, sedie ovunque”. Non le sopporta, Mimì, tutte quelle persone, le donne che si fanno aria con i ventagli, gli uomini che vanno e vengono nell’odore di caffe corretto con l’anice che impregna l’aria, insopportabile, ovunque, e che si mischia con l’odore penetrante dei fiori, delle corone di fiori che circondano la bara. “Tutto umido, tutto suda”. Nessuno lo ha detto ma tutti lo sanno il perché quella bara è chiusa. La guardano e immaginano come è ridotto il corpo che contiene, in che condizioni è Michele. Mimì pensa che avrebbe il diritto di vederlo suo figlio, e gira intorno alla bara come un leone in gabbia, e sa che tutti gli guardano la gobba, come sempre, e gli fa rabbia rendersi conto di pensare alla gobba in quel momento. Quelle persone sono tutte ammassate in un dolore, “Che poi dolore non è. Mimì ci pensa, non è per tutti dolore. Nemmeno per lui, no, non è dolore. È un’altra cosa”. E questa cosa lo spinge in camera da letto, dall’altra parte del letto in cui sua moglie è distesa gonfia di farmaci con le donne vicino, a prendere la pistola dal comodino. E poi lo fa urlare che se non se ne vanno ammazza tutti e poi lo fa sparare alla bara. Una scheggia di legno lo colpisce nell’occhio ma lui non lo sente, tira i chiodi, scardina le assi. Poi i suoi uomini lo fermano. Michele, Michele suo, a quindici anni ha aperto la finestra della sua stanza e ha fatto un volo dal settimo piano. Nella sua testa ora c’è spazio per una sola parola, “Basta”. Passa qualche giorno e Mimì vuole sapere cosa c’è scritto in quel biglietto che Michele suo ha lasciato. “E mi fa male tutto. Bella N., ho odiato tutti tranne te”. Così ha scritto il ragazzo; il giorno prima – gli raccontano – lo hanno visto davanti al liceo, che si avvicinava ad una ragazza e le dava un quaderno. Poi hanno visto che lei rideva forte e lui che andava via. Mimì vuole fare qualche domanda alla ragazza? Sanno già chi è e dove abita. “Mimì dice che no, che non c’ha niente da chiedere, Mimì dice che non c’è niente da capire, si capisce tutto, Mimì dice che la cosa migliore è portarla da Veli […], non c’è niente da capire e basta”. Poi dicono ancora a Mimì che sua figlia, Arianna, piange da sola in camera sua da giorni e non mangia. Allora lui si avvicina alla sua porta. “Gli si spacca il cuore a Mimì. Ma non ce la fa, non ce la fa: lui mò nella testa c’ha solamente Michele, e Michele, e Michele”. Vorrebbe dirle che gli dispiace eppure dice soltanto che non lo sa spiegare ma “che da quando Michele è morto lui sente che ha un figlio solo, e non sa come spiegarsi ma è così”. Nicole è poco più di una bambina e non ha capito niente all’inizio, i silenzi a scuola, quel modo di guardarla appena di tutti, il perché la evitano. E la paura della sua migliore amica quando nel bagno le ha detto di Michele e del balcone, e quando ha chiesto “Ma tu lo sai chi è Mimì? Il padre di Michele Maradona, dico Mimì. Lo sai chi è?”. E poi, con gli occhi pieni di lacrime e di paura “Nicole, il padre di Michele Maradona il capo della Sacra è”. Più tardi a casa sua Nicole ha chiesto “Mamma, cos’è ‘sta Sacra?”. Poi è cominciato l’incubo…
Difficile dare una definizione del romanzo d’esordio di Andrea Donaera, salentino classe 1989, già autore e curatore di antologie poetiche. In un Salento dal sapore ancestrale, dal fascino rurale e ipnotico lontano da ogni falsa contaminazione turistica, fatto di terra rossa, campagne assolate, pietre bianche e chiese antiche, soffocato da uno scirocco denso, bollente, pesante, durante l’estate del 1994 si incastona una storia drammatica di amore e morte. Un boss della Sacra Corona ha perso il figlio maschio nel modo per lui più incomprensibile tra tutti quelli possibili. Il rozzo Mimì si dà arie da elegantone e cita (male) i poeti, ma in realtà non sa leggere tra le poche righe che quel suo figlio, a suo modo adorato, ha lasciato; e poi è così facile credere di capire che il rifiuto di una coetanea e la sua risata di scherno davanti al dono di un quaderno di poesie scritte per lei possano essere l’unica causa di un gesto che rende l’uomo folle di rabbia, simile ad una bestia. C’è spazio soltanto per la vendetta nel cuore impazzito di Mimì e la punizione della ragazza, Nicole, diventa il suo unico pensiero. Rinchiusa in una casupola con il suo carceriere, il giovane Veli – a sua volta colpevole agli occhi del boss e suo prigioniero -, la ragazzina stabilisce con lui un rapporto anomalo in una storia così dura. Come anomali sono loro due, che mantengono una purezza stridente col mondo in cui sono finiti. Lei è soltanto vita, giovinezza, freschezza e voglia di sopravvivere e ribellarsi a tutto. Lui è senza passato e senza futuro, “imbrigliato nelle sue contingenze” come dice Donaera, porta il carico dei suoi giovani anni, pesanti di abbandono, di un destino beffardo e crudele, di un amore nato sbagliato, di rinunce imposte che non smettono di fare male. Se questa è una storia che in qualche modo esplora il lato oscuro di ogni personaggio, anche loro due non possono restare fuori dal male che serpeggia e si insinua ovunque. Chi è quindi la bestia? È Mimì, certo, che l’ha ereditata nel sangue, ma non è il solo; persino Michele, introverso e sensibile, che scrive poesie e legge tanti libri, la fiutava intorno a sé, dentro di sé. Perché la bestia è ovunque. Questa è una storia feroce che parla di genitori e figli, di amori contrastati, di vendetta, del male, del destino, della paura, del coraggio. E di morte. Dire che è una storia di mafia non corrisponde al vero. Come ha detto Donaera, la Sacra è la superficie, quindi è lo sfondo nel quale si muovono i personaggi, tutti immersi e attraversati dal dolore che scorre dentro e intorno a loro, inarrestabile come il fiume di Eraclito citato più volte. Un dolore che non sa quasi mai esprimersi altrimenti se non con la violenza, il bisogno di vendetta, la morte, sempre la morte. Non si salva nessuno, nessuno ha una via d’uscita, né i carcerieri né i prigionieri, né le vittime né i carnefici, tutti immersi nella stessa acqua torbida, melmosa come la paura. Ha detto ancora Donaera, “Ai veri cattivi non ci credo e non ci crederò, perché significherebbe rinunciare ad ogni profondità conoscitiva umana. […] Trovare un buco nella maglia stretta che ci imbriglia in noi stessi, uscire dalla rete di se stessi: questo salva, agganciarsi ad un elemento prezioso per noi”. I personaggi di questa storia non lo trovano. Nessuno di loro. Ritmo serrato e incalzante, stile teso e affilato, atmosfera claustrofobica spietata asfissiante per un testo che ha una forte impronta teatrale. Storia drammatica si diceva all’inizio, e non a caso; il testo nasce per il teatro nel 2014 per essere portato in scena nel 2015 e nel 2016, quindi è stato pubblicato come racconto nel 2018 in una versione che nel romanzo corrisponde ai capitoli 1 e 7. Un romanzo corale di sconfitti, quindi, e per ognuno l’autore immagina un diverso registro linguistico; con il punto di vista cambia anche la narrazione, ora in prima ora in terza persona, ora racconto di eventi ora fiume di pensieri. Il tutto in un apparente flusso di coscienza che tale non è, perché troppo frammentato, sincopato, retto da una punteggiatura che infrange ogni regola ma c’è e serve a sottolineare l’enfasi del parlato, spesso del dialetto salentino che sa essere musicale e duro ad un tempo, proprio come la pietra bianca delle chiese, bella e compatta eppure talvolta facile a sfarinarsi. Un linguaggio fortemente evocativo che fa la prosa potente, ed è questo che dà corpo alla struttura anomala di questo esordio, notevole per originalità e vis narrativa che ha fatto parlare persino di romanzo sperimentale. Dice Donaera che si tratta di un dialetto tradotto, perché lui ha immaginato la storia nella sua testa narrata con la voce di Mimì, voce che ha cercato di riprodurre traducendola. Invece è facile riconoscere l’anima di poeta dell’autore, e non soltanto perché lui sostiene che per lui la prosa ha sempre convissuto con la poesia, ma soprattutto perché alla durezza, alla violenza, persino alla crudezza di certe pagine si alternano aperture liriche che non stridono ma, in contrasto, creano forti suggestioni, come anche le citazioni dei testi di canzoni (anche la musica costituisce una delle anime di Andrea Donaera). Un codice QR permette di scaricare dal sito dell’editore l’antologia di 20 testi di Michele Trevi, ovvero quelle dedicate dal giovane innamorato respinto alla sua Nicole. “Sono tutti giovani tranne me: / nell’andare vitale, / sono tutti qualcuno tranne me: / che resto tale e quale / nel non essere nessuno: se non / macchina a centotrenta / dritta verso il burrone - / e se tu fossi almeno / il burrone: ma tu sei la caduta”. Un piccolo omaggio al lettore che ha la voce stessa del poeta Donaera e che rappresenta il testamento spirituale di Michele; voce che – come racconta l’autore -, simile ad un fantasma, aleggia come la sua parte migliore in tutta la storia. Se vi piace leggere qualcosa di nuovo non perdetevi Io sono la bestia, di certo una delle letture più originali di quest’anno e una voce, quella del suo autore, che certamente ha ancor tanto da dire. Una nota anche per la copertina suggestiva che all’interno restituisce una immagine della bellezza arcaica della campagna pugliese.