
Marzabotto, 29 settembre 1944. All’alba Ferruccio è già in piedi. Spera che il giorno porti molto sole. Ai campi serve ancora un po’ di bella stagione per far maturare i frutti della fatica di chi lavora nei campi. Ferruccio si crogiola ancora un po’ nel letto, mentre cerca di riprendersi dal sonno. Durante la notte ha sognato l’Irma, quell’Irma Marchi che a lui piace davvero tanto e che sogna di sposare da lì a qualche anno. La ragazza ha un anno più di lui, ha i capelli scuri e il viso dolce e abita a Monte Abelle, due case oltre la sua. Ferruccio sente un grande trasporto per quella ragazza e, ogni volta che se la ritrova davanti, ammutolisce, come è accaduto un anno prima, quando i genitori di lei lo hanno invitato a casa loro per una veglia. Quando gli è capitata l’occasione di stare a tu per tu con la giovane, non è stato in grado di articolare alcun pensiero concreto, ma si è congedato in fretta ed è tornato a casa, maledicendosi per l’occasione sprecata. E ora, sdraiato sotto le coperte ad occhi chiusi, il suo pensiero è di nuovo accanto a quella bella giovane, che vorrebbe avere accanto a sé per il resto dei suoi giorni. Non appena apre gli occhi, sospirando, Ferruccio vede accanto a sé sua nipote Dina, undici anni, in piedi al centro della stanza mentre guarda fisso sotto il suo letto e batte un piede sul pavimento, impaziente. È appena cominciato il solito gioco che ha luogo ogni mattina: Lino, il fratello più piccolo di Ferruccio, si è appena nascosto sotto al suo letto e, una volta scoperto, vuole essere rincorso, insieme a Dina, dal fratellone. Tra grida e trambusto i tre guadagnano la cucina dove, ad attenderli, c’è lo sguardo severo di Giuseppe, padre di Ferruccio e Lino nonché nonno di Dina, che li fissa lisciandosi i baffi e schiarendosi la voce. Giuseppe, classe 1884, è un infaticabile lavoratore e non si risparmia mai alcuna fatica…
La Storia altro non è che l’intreccio di tante piccole storie di gente comune, persone che spesso non hanno voce in capitolo nel decretare le sorti della propria famiglia o della propria comunità, ma che sempre sono costrette a pagare le conseguenze più pesanti legate alle azioni di sangue e di violenza. E allora è necessario non dimenticare, ma tenere vivo il ricordo delle stragi e degli eccidi causati dall’avidità umana, dalla sete di potere e dalla follia generata dall’odio gratuito e sovente immotivato. Ferruccio Laffi, un uomo come tanti, sedicenne nel 1944, è un sopravvissuto alla strage di Marzabotto, uno dei più spietati crimini di guerra avvenuto durante la Seconda guerra mondiale ai danni della popolazione civile. Tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944 truppe nazifasciste operano, nel terreno di Monte Sole - sull’Appennino bolognese - e nel comune di Marzabotto una serie di rastrellamenti condotti con una ferocia inaudita, che trova la sua conclusione in un vero e proprio eccidio. Ogni casa, chiesa, scuola e casolare viene setacciato e la popolazione civile viene mitragliata senza alcuna pietà. Milleottocento trenta vittime, scelte a caso e comprensive di donne e bambini, giacciono al suolo dopo l’incursione militare. Una strage senza precedenti e senza alcuna ragion d’essere, una ferita ancora aperta e sanguinante per le popolazioni delle zone teatro della tragedia. Un crimine che è rimasto impresso negli occhi e nel cuore di chi è sopravvissuto ma ancora ripercorre, nei propri incubi notturni, ogni momento di quelle giornate terribili. Lo strazio di essere sopravvissuto, tuttavia, trova la sua ragione d’essere nella decisione di diventare testimone dell’orrore vissuto. Ecco allora che Ferruccio si fa portavoce, per il tempo che gli resta da vivere, dei ricordi: l’ultimo pranzo con la famiglia, la corsa nel bosco, l’incendio del suo casolare, la scoperta dei corpi dei familiari trucidati nel cortile. Ogni scena viene raccontata - con l’aiuto fondamentale della scrittura piana e realistica di Margherita Lollini, una laurea magistrale in sociologia con tesi sulla sopravvivenza nei lager nazisti - senza sconti, perché è necessario che il presente non dimentichi il passato ed occorre che la memoria vada custodita, affinché contribuisca alla realizzazione di una pace futura, possibile e necessaria. Un’autobiografia tragica ma inevitabile, che racconta la resilienza delle comunità contadine, contribuisce a liberare quel grumo di dolore che attanaglia al ricordo di una mattanza perpetrata senza pietà e restituisce dignità a chi non può e non deve essere dimenticato.