
Skin, al secolo Deborah Dyer, nasce nel 1967 a Londra, nel problematico quartiere periferico di Brixton. La sua famiglia ha origini giamaicane, come molte altre nella zona. Il padre, arruolato nella RAF, resterà quasi completamente assente per molti anni; Deborah cresce quindi con la madre Patricia e i fratelli. Studentessa brillante e frequentatrice della Chiesa (per imposizione famigliare soprattutto), Deborah entra in contatto con la musica grazie al locale gestito dal nonno materno: uno scantinato colmo di vinili jazz e country divenuto celebre a Brixton. Le lezioni di violino della scuola pubblica le permettono, inoltre, di sviluppare quello che si potrebbe definire l’orecchio assoluto. A quindici anni, cominciano i primi passi verso l’indipendenza grazie ai lavori in negozi del centro e con l’abbandono della Chiesa. Sarà il periodo dell’università a rappresentare il cambiamento di rotta definitivo, con le prime relazioni gay e, soprattutto, con le prime esperienze da cantante in formazioni jazz. Proprio durante un’esibizione in un locale, Deborah conosce la manager Leigh Johnson con la quale instaura un rapporto di fiducia e di amicizia, consolidando la possibilità di una carriera da cantante e autrice professionista. Il cerchio si chiude quando Deborah, che si fa ora chiamare Skin per via della testa rasata, incontra il chitarrista Ace…
Probabilmente, non c’è periodo storico migliore per leggere una biografia dedicata a un personaggio come Skin. La ormai ultracinquantenne leader degli Skunk Anansie ha, infatti, mosso i primi passi (artistici e non) in un mondo ancora lontano dai giorni delle sensibilizzazioni sulle tematiche LGBT e dal movimento black lives matter. La cantante e dj londinese, con l’aiuto della giornalista e scrittrice Lucy O’Brien, racconta la sua storia in maniera naturale e discorsiva, senza il proposito di voler necessariamente creare scalpore. Skin ripercorre le fasi della propria vita attraverso una lucida e dettagliata analisi dei contesti sociali, politici e culturali attraversati, evidenziandone lati positivi e negativi. Sono davvero molti i temi toccati in It takes blood and guts: dalla vita nella periferia londinese multietnica alla violenza sulle donne, dalla sessualità al mondo del lavoro negli Anni ’80 e ’90, dall’integrazione razziale al farsi spazio nel complicato mercato musicale prima inglese e poi globale. Quello che ne esce non è semplicemente il ritratto di un’artista, ma quello di una donna che ha deciso di non arrendersi alle difficoltà di tutti i giorni, che non sono solo quelle legate a un personaggio di successo, ma soprattutto quelle affrontate da chiunque decida di esprimere sé stesso al massimo, senza accettare nessun tipo di compromesso, rendendosi una parte attiva di un cambiamento ancora in atto.