
Max Glickman è un vignettista in crisi matrimoniale e di ispirazione artistica. Pur di vendere le sue strisce è costretto a creare le sue vignette scopiazzando le illustrazioni di un artista pubblicato di sottobanco da un editore pirata senza scrupoli. Ma sopratutto Max Glickman è ebreo, figlio di una famiglia ebrea non praticante, cresciuto a Crumpsall Park, nella periferia nord di Manchester, nella metà degli anni Cinquanta. L’infanzia del piccolo Max è perciò impregnata di stereotipi ebraici, dalla cui superstizione morbosa egli cerca presto di affrancarsi, scientemente o incoscientemente, grazie alle taglienti armi dell’ironia, della caricatura e dell’esagerazione. Armi che non a caso costituiranno i primi ingredienti della sua futura formazione artistica. Max vive in famiglia con il padre, ex pugile, ateo e comunista, intento in casa ad un continuo confronto-scontro dialettico con il vecchio Ike, zio del piccolo Max, sui temi scottanti dell’Olocausto nazista e sulla continua sarcastica argomentazione della sua anti-religione. Cosa che agli occhi del giovane Glickman suona subito come un tentativo da parte di entrambi di esorcizzare il male storico di cui è imbevuto irrimediabilmente il loro popolo. “Così sono cresciuto... tra i ghetti e il verde di North Manchester, con la parola “sterminio” nel vocabolario e i nazisti in salotto”. Sua madre viceversa passa tutte le sue giornate organizzando tornei di kalooki – una versione ebraica del ramino – con le amiche e a incensare la bellezza di Shani, sorella maggiore di Max. Ma sopratutto Max divide la sua infanzia con i due coetanei Manny Washinsky e Errol Tobias, quest’ultimo di un paio d’anni più grande di loro. I due ragazzi rappresentano per lui i due poli estremi verso cui continuamente tendere e distanziarsi, le due facce incompatibili della stessa medaglia dell’amicizia. Manny è un ragazzotto chiuso e introverso, ossessionato dalla sua formazione ebraico ortodossa di derivazione famigliare. Errol è invece un giovane instabile e violento, capace di attacchi d’ira – a volte proprio nei confronti del bonario Manny – e accessi di violenza, da far rabbrividire dalla paura. Eppure, a dimostrazione che non è certo il carattere degli uomini a tracciarne poi la via, sarà proprio il mansueto e religioso Manny alla fine a macchiarsi dell’immonda e apparentemente immotivata accusa di omicidio intenzionale nei confronti dei propri genitori ottenuto per altro con un metodo di raccapricciante memoria nazista...
Howard Jacobson, romanziere, giornalista, saggista e umorista inglese di origini ebraiche, definito dal “New York Times” il “Philip Roth britannico”, sforna ancora una volta una deliziosa opera pregna di sarcastico umorismo, a volte anche nero, che ha per soggetto storie di ebrei inglesi. Uno stile padroneggiato talmente alla grande da riuscire perfettamente a farci ridere con la tragedia e commuovere con una risata. Il tutto magistralmente amalgamato – sempre in maniera misurata per tutte le cinquecentosessanta pagine del libro – in un gioco di caustica leggerezza yiddish combinata a spunti di considerazione storico-filosofica, dove alla fine il plot diviene solo un mero pretesto, uno spunto per una sorta di diario esistenziale sulle tante questioni aperte e irrisolte che la cultura ebraica reca come un macigno su di se. Un’opera dall’enorme portata evocativa, simbolica e morale.