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La bambina sul davanzale

La bambina sul davanzale

La bambina è seduta sul davanzale. Da lì osserva il padre e la madre. Loro non la vedono, non l’hanno mai vista veramente. Confinata in un’eterna infanzia, assiste allo spettacolo della vecchiaia e del decadimento fisico dei propri genitori, accuditi dalla sorella minore e da quella che era venuta dopo. Non ha nostalgia della vita, le mancano solo le storie e avrebbe voluto poter continuare il romanzo, che aveva letto solo per poche pagine. Una storia rimasta, così, incompiuta. Di fantasmi e di rancori, proprio come la sua. Cime tempestose, proprio come quelle delle sue montagne, dove la terra scivola sotto ai piedi. È circa la metà del secolo scorso. Lara è una bambina curiosa e sensibile, insofferente alle regole, primogenita di una famiglia modesta e dalla mentalità ottusa e bigotta. Ha molti segreti che l’aiutano a non sentire la pesantezza del mondo ristretto in cui è costretta a vivere, i cui confini sono le montagne, i boschi, la neve, ma anche la solitudine. E ancora sola, eterna bambina, osserva la vita degli altri, seduta sul davanzale. Vorrebbe essere vista, vorrebbe essere amata, ricordata. I suoi genitori, ormai anziani, non completamente autosufficienti e incapaci di comprenderlo, costretti a trasferirsi dalla figlia, ingrati ed egoisti, complici e chiusi nel loro piccolo nucleo, si lasciano sempre più andare. E lei li guarda. Guarda le sorelle che, sempre più insofferenti ai capricci del padre, che si provoca, disobbedendo, cadute e ricoveri, perdono sempre più la pazienza e iniziano a desiderare che muoia. Lara non ha voglia di andare al matrimonio del cugino, però il vestito nuovo ricamato le piace proprio tanto e ha deciso che, se solo la mamma glielo chiederà un’altra volta, lei ci andrà. I genitori, insofferenti a quello che ritengono un ennesimo capriccio, invece, senza dire nulla, se ne vanno con la sorella, lasciandola sola. È un luglio piovoso in montagna. Lara infila gli stivali di gomma, si copre il capo con la pezzola buona della mamma ed esce di casa…

Lara è la metafora della bambina interiore che alberga in ogni donna nata nella famiglia sbagliata. La bambina vivace, intelligente, che sfida le regole di una comunità ristretta e bigotta, che è costretta a crescere se stessa, cercando di nutrire la propria fame di conoscere le cose della vita, di esplorare le emozioni di cui non si può parlare, di creare un mondo alternativo fatto di piccoli oggetti simbolici. Il desiderio naturale che ogni bambino ha, di crescere nell’amore e nell’attenzione dei propri genitori, quando non viene soddisfatto, crea un disagio insanabile. La figlia, quella ben educata, che saluta, quella brava a scuola, quella buona, da adulta si scopre repressa ed è quella stessa bambina che pur di avere l’accudimento agognato si è lasciata addomesticare. Infine, la figlia che la bambina non ha mai conosciuto, quella che prende in mano la situazione, che chiama gli assistenti sociali per fare assegnare al padre un posto all’ospizio, quella che non lo guarda più nemmeno in faccia è il frutto del distacco emotivo. Una storia che racconta il dolore che si trasforma in rancore e genera altro dolore che non cura le ferite dell’anima e non riesce nemmeno a far ravvedere un padre che non si pente mai veramente. I personaggi principali, quasi sempre senza un nome proprio, con la ripetizione ossessiva del loro ruolo sociale de “il padre”, “la madre”, “la figlia” e “l’altra figlia, quella che avevano chiamato Annamaria”, sono appena tratteggiati ma vividi. La trama si compone di un unico ininterrotto lungo capitolo, ritmato dai ricordi della bambina che a mano a mano svela il suo piccolo mondo di adolescente incompresa e abbandonata. Insieme ad uno stile asciutto e avaro di punteggiatura ti costringono a trattenere il fiato in attesa di un lieto fine che non arriva mai. Si riconosce la mano della poetessa, che riesce a racchiudere in poche parole metafore e archetipi immortali, che arrivano subito allo stomaco e ci restano.