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La caduta del re

La caduta del re

Serridslev, Copenaghen. Sedicesimo secolo. Un carrettiere e un uomo nascosto nel fieno – Mikkel Thøgersen, il lungo, detto: “Cicogna” e noto autore di odi e distici latini – arrivano in prossimità di una locanda. Rimangono sulla soglia a bere birra. Dentro ci sono quattro nobili guerrieri della guardia sassone, dallo “sguardo come un festoso fuoco”. Prima scherniscono Mikkel, poi lo invitano a bere del vino con loro. Dall’altra parte del tavolo, Mikkel scorge un viso noto, fatica un po’, ma poi ne ricorda il nome: è Otto Iversen, anch’egli, come lui, originario dello Jutland. Dopo aver lasciato la compagnia dei guerrieri, Mikkel torna a casa, o meglio, in una soffitta che condivide con un altro studente: Ove Gabriel, “quell’immutabile volto da primo della classe”, sempre pronto a giudicare Mikkel, che è invece uno studente sfaccendato e vive di elemosina (“come i passeri”). Il giovane prova, però, una profonda pena in fondo al cuore: il suo amore per la giovane Susanna (di lei sa solo che appartiene alla famiglia del vecchio ebreo Mendel Speyer, forse è sua figlia). Così “Cicogna” decide di uscire ancora, anche se non potrebbe a quell’ora… in strada, incontra nuovamente quello stesso gruppo di guerrieri. Da lì, la sua vita continua a degenerare: lascia l’università, si fa crescere la barba e diviene mercenario, prima al servizio di re Hans e poi di re Cristiano…

Johannes V. Jensen, vincitore del Nobel per la Letteratura nel 1944, con La caduta del re scrive (tra il 1900 e il 1901) quello che è considerato il miglior romanzo del Novecento danese. Il suo narrato è stato giustamente definito: una “prosa poetica”. La sua penna descrive con delicatezza e ardore insieme: dà vita ai paesaggi e agli ambienti, come svegliandoli con una dolce e amorevole carezza e regalando loro un’anima. Il contesto, la scenografia, è parte centrale e imprescindibile della trama. Il modo di narrare è soave e arguto, sincero e calibrato insieme. La scelta delle immagini, degli accostamenti metaforici, è originale, ma anche vivibile, facilmente “indossabile” dal lettore, nonostante l’epoca così lontana (nonché i luoghi). L’idea del romanzo venne a Jensen alla vista del quadro del pittore Carl Bloch (1871), che ritraeva il re Cristiano II negli anni della sua prigionia. Ma lo scrittore centra lo sguardo sul servitore, sul suo percorso di vita, plasmando il suo testo come un vero e proprio romanzo di formazione. Quella di Jensen è una penna elegante, sublime. Le tematiche affrontate e vissute sono molteplici e tutte perfettamente in armonia fra loro, come tante note che s’aprono in melodia, da un’unica fisarmonica. Mikkel e gli altri personaggi – quali primi figli del Novecento – sono tutti eroi che faticano a essere tali, che si scontrano con la ferocia della vita, che si perdono nelle sue mareggiate e che, alla fine, imparano semplicemente a lasciarsi trasportare, a galleggiare, senza chiedere e senza chiedersi altro. Jensen racconta l’esistenza umana anche negli aspetti più cruenti, non ne ha paura, vi affonda, ma senza abbandonare mai la sua cifra d’eleganza, di classicità.