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La casa di marzapane

La casa di marzapane

Bix in questo periodo fa fatica a parlare con Lizzie. La donna è davvero troppo impegnata con l’ultimo dei loro quattro figli, Gregory, che in questo momento, per esempio, sta allattando. Il piccolo ha appena compiuto tre anni, ma ancora di svezzamento non se ne parla. Lizzie sembra prosciugata. Bix sa perfettamente che la moglie si sveglia alle sei per occuparsi dei bambini, e che trascorre quasi tutta la giornata al telefono con l’Asia e a malapena trova un attimo per sé o per fare meditazione. Ma a Bix mancano tanto le chiacchierate che ricorda ripensando al periodo in cui Lizzie, a metà del dottorato, si era trasferita da lui e capitava spesso che intavolasse discussioni con le sue amiche - per esempio sulla differenza tra amore e libidine - mentre Bix, davanti al desktop del suo pc, captava vagamente il contenuto del loro scambio e provava l’estatica certezza che il mondo su cui quelle laureande si andavano interrogando sarebbe ben presto diventato qualcosa di superato. In ogni caso, la voglia di chiacchierare non se ne vuole andare, neppure ora che Gregory ha finito di poppare e madre e figlio si sono addormentati. Con chi può parlare con la stessa sensazione di casualità e apertura che provava quando era uno studente universitario? Non certo con quelli che lavorano da Mandala, che, nel caso, non farebbero altro che provare a compiacerlo. No, parlare con loro non va bene. Bix porta il piccolo nel suo lettino, poi decide di rivestirsi e di uscire. Sono le undici passate. Uscire a piedi per le strade di New York a quell’ora rappresenta una violazione delle misure di sicurezza stabilite dal suo consiglio d’amministrazione. Perciò rinuncia all’abito che si è appena tolto, riesuma dall’armadio un giubbotto mimetico e un paio di anfibi piuttosto malconci, toglie il fedora in pelle che indossa da quando ha tagliato i lunghi dreadlock e si tuffa nella notte di Chelsea, infastidito dall’aria fredda che lo colpisce sull’inizio di chierica che ha in testa. Sta per gesticolare verso la telecamera per farsi aprire dal custode e rientrare per recuperare il cappello, quando vede un venditore ambulante all’angolo con la Settima. Un berretto di lana lo comprerà da lui...

Jennifer Egan, autrice americana premio Pulitzer per la narrativa 2011, è un talento anticonvenzionale e il suo ultimo romanzo ne è la prova tangibile. L’autrice regala al lettore una visione personale che, senza diventare unicamente distopica, prova ad interpretare il mondo che siamo chiamati a vivere, un presente confuso, complicato, singolare; una realtà in cui, oltre che la condivisione di ogni tipo di informazione attraverso i social, è possibile arrivare allo scambio di sensazioni e di ricordi. Bix Bouton, già protagonista del precedente romanzo della Egan, Il tempo è un bastardo, torna. È un guru nel complesso mondo del digitale e la sua invenzione, “riprenditi l’inconscio” - che carica, su una specie di cloud, ricordi e pensieri di tutti, così da poter essere condivisi - è un successo planetario, che va al di là di ogni più rosea aspettativa. Ma, ovviamente, il rovescio della medaglia non è altrettanto luccicante e il prezzo da pagare, la rinuncia a ogni forma di privacy, è davvero alto. Con uno schema narrativo che ricalca quello del precedente romanzo - capitoli distinti, che potrebbero essere letti anche in maniera autonoma, come se si trattasse ogni volta di un racconto diverso, che presenta ogni volta un nuovo personaggio, già apparso in veste di figura secondaria nel capitolo precedente - la Egan presenta vicende di caduta e rinascita, di disperazione e redenzione e, a tener unita l’intera narrazione, c’è la consapevolezza che l’uomo abbia stretto una specie di patto con il diavolo per poter comperare in qualche modo una felicità che, di fatto, lo ha spinto a vendere la propria anima. Lettura estremamente complessa e di non facile fruizione, il lavoro della Egan - realizzato con il contributo degli studenti del corso di scrittura creativa da lei condotto (e questo spiega la frammentarietà che qua e là si rileva tra i vari episodi della narrazione, che finiscono per ostacolarne la fluidità) - è un inno al potere dell’immaginazione e alla forza della letteratura, capace di creare immagini ben più evocative rispetto a quella tecnologia digitale alla quale, pare, tutto il mondo si sia votata negli ultimi tempi.