Salta al contenuto principale

La casa senza finestre

Zeba e Kamal vivono in un piccolo centro dell’Afghanistan con i loro 4 figli. Lui lavora come fabbro, ma ciò che guadagna lo sperpera in alcol, lasciando alla moglie l’incombenza di inventarsi pranzi e cene dal nulla o quasi. In una di queste giornate complicate, Zeba esce per andare a raccogliere i panni nel piccolo cortile della loro casa e scopre il marito morto, con un’accetta piantata in testa. Le sue grida attirano i vicini e il figlio Basir, che esce di corsa con dietro le tre sorelle più piccole. La colpa ricade immediatamente sulla donna che, anziché essere lasciata alla vendetta dei parenti del marito, come di norma succede, viene arrestata e portata in un carcere femminile. Il fratello le procura un giovane avvocato, afghano ma ormai americano di passaporto, che lavora per una ONG che si occupa di fornire assistenza legale in un Afghanistan dove la giurisprudenza è una bandiera al vento. Zeba non dice nulla, resta zitta quasi assente sia con le compagne di cella sia con Yusuf, il suo avvocato. Quando parla dà in escandescenze e resta poi a dormire sulla branda per giorni. Il giovane è sconcertato dal suo comportamento e non capisce perché tutta questa reticenza: possibile che lei non abbia voglia di difendersi e non gli voglia raccontare cosa sia realmente accaduto? Esiste una sua dichiarazione rilasciata alla polizia dove si dichiara colpevole ma è stata scritta da un poliziotto, non di suo pugno. In altre parti del mondo ciò non sarebbe ammissibile. Cosa impedisce allora a Zeba di raccontare?

Questo di Nadia Hashimi, pediatra nata a New York da genitori afghani, è il terzo romanzo. Scrive del suo Paese d’origine, della situazione femminile e di un aspetto poco conosciuto dell’Afghanistan, le pratiche magiche. Zeba è figlia di Gulnaz, una donna ancora bellissima con gli occhi verde oro, che hanno incantato (mai termine fu più adatto) e tutt’ora incantano chi li fissa. Gulnaz è da tutti e da sempre considerata una jadugar , una strega ed è figlia di un murshud , una specie di santo che aveva poteri soprannaturali (in realtà un truffatore). Zeba, che da piccola aveva sempre assistito ai riti magici della madre, iatture soprattutto, diventa un personaggio importante nel carcere dove viene rinchiusa in attesa del processo dopo che aveva preparato, con successo, un talismano affinché una sua compagna di cella potesse realizzare un suo desiderio. Al suo ingresso è muta, silenziosa, tranne quando all’improvviso la sua mente viene presa dal furor dei distici: sono i landay, composizioni tipiche afghane che parlano della terra, della vita e anche della condizione femminile, e allora parla, li comunica. In alcune occasioni è anche preda di attacchi isterici, viene lasciata da parte dal resto delle donne. Dopo il successo del suo “incantesimo” però diventa parte costituente il microcosmo di Chil Mahtab, carcere che ospita donne colpevoli loro malgrado. L’Afghanistan è un posto dove se sei donna sei già un individuo metà: hai sempre metà della ragione, conti e vali sempre la metà di un uomo e se c’è un colpevole da trovare per un reato, anche senza prove sei comunque colpevole e, se addirittura il reato riguarda tuo marito e/o il suo onore, la “giustizia” è affidata ai parenti. Nel caso di Zeba però, grazie ad una serie di interventi esterni non sempre limpidi, la sua storia avrà una conclusione diversa. Un libro sulla sorellanza e la complicità tra donne, sulla loro esclusione dalla parità dei sessi. Però un libro fiacco. Lungo, descrizioni spesso prolisse, la storia che si dipana lentamente (troppo), i colpi di scena non creano grande partecipazione, anche le pagine finali si trascinano le parole. Discutere la scelta di un autore di preferire una denuncia sottovoce piuttosto che un’ingiustizia gridata non è materia di recensione. Tuttavia se amate (come me) libri fortemente schierati e uno stile più aggressivo… avete capito.