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La casa sul Nilo

La casa sul Nilo

Cinquantadue valigie di cuoio marrone, ognuna con un numero scritto in nero. Contengono tutto quello che la famiglia è riuscita a portare con sé, ben poco se pensiamo a una vita intera. La famiglia che arriva a Roma – spaesata, ancora quasi incredula di aver dovuto lasciare il Cairo - deve ripartire da zero. La voce narrante (quella della figlia di mezzo, di cui non viene mai detto il nome) ci descrive il viaggio, l’arrivo in aeroporto con le due sorelle ancora bambine e quindi ancora non attrezzate per capire quello che succede. La matriarca Bobe, apolide (con tutto quel che ne consegue in termini di problemi pratici e insicurezza personale), normalmente indomabile, è invece incredibilmente quieta. Infine, sua figlia Fanny e il marito Sam. Tutte le donne di casa sono spaesate, spiazzate da un luogo così diverso da quello in cui sono cresciute le bambine, troppo legate agli usi cairoti, così diversi in tutto. L’unico che si sente in qualche modo a casa, non fosse che per le origini, è Sam. Comincia così la storia, con la netta percezione del cambio di clima, di colori, la sensazione di una città piccola e pulita (che passerà dopo qualche anno). La voce racconta e descrive i confronti continui che soprattutto loro, le bambine e la nonna, fanno con la vita di prima, le loro visite allo zoo – vicino all’albergo dove la famiglia ha preso momentaneamente la residenza – vissute dapprima come un sollievo per la presenza di tanti animali che erano abituate a vedere in Egitto (scimmie soprattutto e i coccodrilli) ma poi abbandonato grazie alla perspicacia di Bobe, che riconosce la nostalgia farsi troppa. E poi la difficoltà - almeno nel ricordo non troppo traumatica - dell’imparare una lingua nuova, la stranezza nel sentire le conversazioni svolgersi tutte in italiano, diversamente dall’uso egizio di passare dall’arabo all’inglese o al francese a seconda del tenore di quanto si dice. Fin da subito cominciano le incursioni in un passato in cui lei – la narratrice - non c’era, ricordi tramandati come un’eredità preziosa in cui si mischiano cronache familiari, amicizie, politica e lavoro senza che manchino le storie d’amore gli amici e tutto quello che trasforma un’esistenza in una vita…

Etimologicamente il nome Egitto deriva da una antica lingua semitica e si può tradurre con frontiera, guardia, sentinella. Perché questo è stato per secoli. Un Paese che unisce Africa e penisola Arabica, affacciato sul Mediterraneo e sul Mar Rosso, uniti dal canale di Suez che passa totalmente in territorio egiziano. Una lunga storia di dominazioni, inevitabili per la posizione strategica e le possibilità economiche che offre quel Paese, fino a diventare terra da usare per inglesi e francesi e in seguito esclusivamente un protettorato inglese, ha fatto sì che (anche grazie a dei sovrani più interessati alla mondanità garantita dal loro rango che agli interessi del popolo) l’Egitto in generale e il Cairo in particolare siano stati per molti anni un centro nevralgico in cui coabitavano e coesistevano pacificamente e piacevolmente rappresentanti di moltissime etnie e religioni diverse. La famiglia raccontata poi è un felice coacervo. La capostipite è un’apolide detta Bobe, esule ebrea da una città ucraina, sposata con Misha che ha dovuto a suo tempo fuggire da Odessa. In Egitto la comunità ebraica, per quanto possa sembrare paradossale, è sempre stata piuttosto numerosa e “forte” ma anche fortemente integrata con le altre: cristiani, copti, musulmani dalle provenienze geografiche più disparate. In questo ambiente in cui si muovono imprenditori, affaristi e nobili, vivono e crescono i protagonisti. È un viaggio a ritroso nei ricordi e nei racconti, che parte dall’arrivo a Roma nel settembre del 1971 - a seguito del sempre più precario status degli stranieri con la salita al potere di Nasser - che si snoda, con la scrittura pulita della giornalista, fra scene di vita familiare, descrizioni accurate di piatti e profumi che ti trascinano letteralmente in un’epoca che, per quanto non lontanissima nel tempo, sembra appartenere a un tempo quasi fiabesco. Eppure nella leggerezza della narrazione è ben percepibile l’angoscia di chi pur vivendo tranquillamente ha in sé, invisibile, lo stigma dell’esule. Anche nella gioia, con buone frequentazioni e senza problemi economici, rimane sullo sfondo fortissimo una sorta di rimpianto, una indefinita ma profonda sensazione di mancanza di radici che rende ancora più doloroso l’abbandono di un luogo considerato sicuro, in cui si sono fatti nascere figli, creato famiglie, cementato amicizie. Sebbene le figure diciamo così oscure o a mezz’ombra non manchino, c’è un tale amore nel racconto che un personaggio realmente negativo non c’è. Un libro che si può godere come una favola o prendere come spunto per tante riflessioni che nonostante gli anni passati, rimangono purtroppo attualissime.

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