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La città è dei bianchi

La città è dei bianchi
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Atlanta, 1948. Nel profondo Sud statunitense la segregazione razziale è una realtà imprescindibile che nessuno sembra volere o potere mettere in discussione. Per la prima volta però il Distretto di Polizia concede a otto afroamericani di arruolarsi e di pattugliare le proprie zone. Poliziotti a tutti gli effetti, certo, ma con molte limitazioni rispetto ai colleghi bianchi. Innanzitutto, la divisa è differente e poi questi agenti non possono utilizzare le volanti né arrestare cittadini bianchi, neppure in flagranza di reato. Devono necessariamente avvisare e fare intervenire gli altri colleghi che il più delle volte li scherniscono con versi da scimmia e fanno molta poca attenzione a non metterli sotto con le loro auto di pattuglia. Un copione frustrante che si ripete identico anche in una calda notte di luglio per gli agenti neri Lucius Boggs e Tommy Smith, dopo avere fermato un guidatore completamente ubriaco a bordo della sua Buick. L’uomo ha centrato in pieno un lampione in Auburn Street e al suo fianco ha una giovane ragazza di colore con un vestito giallo e alcune ecchimosi evidenti sul volto. Il fermato però se ne va con tante scuse dei poliziotti bianchi, senza nemmeno avere la decenza di accelerare per allontanarsi il più in fretta possibile. Dopo qualche giorno, la ragazza viene trovata morta in una discarica con lo stesso vestito giallo addosso. Si chiama Lily Ellsworth, cameriera. Un omicidio di cui non sembra importare a nessuno ma Boggs e Smith decidono di intraprendere un’indagine segreta e non autorizzata per proprio conto. Per smascherare il colpevole dell’omicidio, scuoteranno Atlanta e le sue fondamenta marce nel profondo dove Chiesa, Polizia, autorità e criminalità hanno stretto un patto di non belligeranza per mantenere lo status quo

William Faulkner diceva che il profondo Sud americano bisogna necessariamente raccontarlo. Bisogna spiegare perché la gente vive lì e anzi “perché vive”. Mullen lo fa prendendo spunto dalla vicenda dell’istituzione di un corpo di polizia afroamericano con compiti limitati di vigilanza nei propri quartieri. Dà vita quindi alla coppia di agenti Boggs-Smith che, in opposizione alla cappa di segregazione presente alla fine degli anni Quaranta negli stati del Sud, decidono di intraprendere la loro indagine fuori legge, in grado di scardinare un sistema così oppressivo e inumano. La città dei bianchi è il quarto libro di Thomas Mullen, dopo un esordio fulminante che gli è valso il James Fenimore Cooper Prize e alcune critiche entusiaste da “USA Today” e “Chicago Tribune” come uno dei migliori debutti narrativi di sempre. Questo suo ultimo romanzo vede come setting “uno dei pezzi di America da far gelare il sangue”, usando l’espressione del celebre Stephen King. L’autore ha optato per una ricostruzione storica certosina che forse va a spezzare un po’ troppo il ritmo della narrazione che soffre di tanti momenti di stallo. Alcuni personaggi poi sono un po’ troppo stereotipati, su tutti Dennis Raekstraw, il poliziotto bianco e idealista fresco di accademia che ha l’illusione di poter cambiare le cose e che dà una mano a Lucius e Tommy nelle loro indagini. Il libro è ottimo per approfondire il periodo storico e le atmosfere abbozzate in capolavori cinematografici come Mississippi Burning o La calda notte dell’ispettore Tibbs ma meno per venire intrappolati in una storia noir che lascia senza fiato.