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La cura

La cura

Baden. Metà anni Venti. Hermann Hesse si reca nella cittadina termale per tre settimane di trattamenti terapeutici come cura per la sua sciatica. Mentre raggiunge l’albergo, incontra molte altre persone, che lui chiama colleghi, con la stessa patologia o sofferenti di gotta, che hanno difficoltà a camminare e mostrano chiari segni di malattia ad uno stadio avanzato. Lui, al contrario, ha solo una forma lieve e si sente molto ringalluzzito, praticamente sano, in qualche modo superiore a questi ammalati: cammina eretto, ha sì un bastone ma è una leggera canna d’India di cui potrebbe anche non avvalersi, non certo uno di quei bruttissimi bastoni con al fondo una ventosa! Poi però, con un balzo di razionalità, si rende conto che esistono persone che non hanno il minimo acciacco e che possono con più ragione sentirsi più sani di lui, essendolo realmente; camuffa questo pensiero pensando che quelli così in salute siano gli abitanti della cittadina. Si presenta poi un grande problema, la scelta della camera che, per “noi nevrotici, insonni e psicopatici, quest’atto banalissimo, fantasticamente complicato da ricordi, ansie e fobie, diventa un martirio”; alla fine propende per una scelta casuale, che si rivela però un incubo perché Hesse ha un sonno tormentato, il mattino per lui con la routine del lavarsi, farsi la barba e vestirsi è uno sforzo, e avere nella stanza vicino alla sua una coppia di olandesi che sghignazzano, ricevono ospiti rumorosi dalle 6 del mattino, è una maledizione. Come in ogni stazione termale è necessaria un visita medica per approntare la giusta terapia e qui spunta l’intellettuale che teme di trovarsi di fronte a un povero imbecille poco istruito in cultura generale perché per lui “i medici...fanno parte della gerarchia dello spirito...io li colloco molto in alto e in un medico sopporto male una delusione...Mi aspetto da un medico...un resto di quell’umanesimo per cui si richiede la conoscenza del latino e del greco oltre a una certa preparazione filosofica”. Non solo il medico è di questo stampo ma riconosce nei problemi fisici di Hesse una componente nevrotica. Chiunque avrebbe forse mal reagito a questa notizia, ma non Hesse che, in questo, vede una constatazione del suo pensiero per cui “il carattere nevrotico viene visto non come una malattia, ma come un processo di sublimazione assai doloroso, ma estremamente positivo”. Saranno molte le considerazioni che la permanenza a Baden susciterà in Hesse...

Un Hesse che non ti aspetti, che ironizza su sé stesso e sulla sua “condizione” di intellettuale. Ogni inconveniente, ogni accadimento è fonte sia di ironia sia di messa in discussione del suo intellettualismo; lui, ascetico, solitario, che tende alla saggezza, si ritrova circondato da persone che non potrebbero essere più lontane da lui, ma proprio per questo funzionali a molte riflessioni. Ci troviamo, ancora una volta, di fronte allo scontro tra l’ascesi e la vita concreta, ma a differenza per esempio di Narciso e Boccadoro, il tutto è condito da un’ironia che rende questo libretto di poco più di un centinaio di pagine sorprendente e godibilissimo. Ogni sua opera è un viaggio, una forma di lotta tra le due facce dell’esperienza umana, l’unità e la molteplicità; in questo caso non è più l’illuminazione la destinazione (Siddharta) ma il ridimensionamento di una sorta di egocentrismo intellettuale. Cosa ha ricavato Hesse da queste tre settimane? Che la vita è un’antinomia, come la contraddizione tra le cure potenti contro gotta e sciatica e i pranzi e le cene poco salutari che si offrivano agli ospiti delle terme. O meglio, la risultanza è che “per me, la vita consiste soltanto nel fluttuare tra due poli, nell’andare e nel venire tra i due pilastri-base del mondo. Vorrei continuamente indicare, estasiato, la beata e multicolore varietà dell’universo, e insieme ricordare che alla base di questa varietà c’è unità”.