
In una vecchia mappa della città, Via dei Coccodrilli è rappresentata con scarso vigore e cura, quasi come fosse ancora uno spazio inesplorato. Si tratta di un quartiere commerciale e industriale. Qui “la feccia e la volgarità si sono impiantate, creature senza personalità, senza bagaglio culturale né regole morali”. Eppure, “nei giorni della sconfitta […] può accadere che uno o l’altro degli onesti cittadini si avventuri per caso in quel malsano quartiere”. Via dei Coccodrilli è uno spazio a-colore, senza guizzi né personalità, il cui unico tratto caratteristico è l’assenza d’ogni tipo di etica. Non esistono fermate fisse dei treni, la gente si sparpaglia dove capita. Non c’è una rotta: ogni cosa è fatua, eccessiva e, quindi, destinata a spegnersi e a svanire presto. È il quartiere del peccato che devia dalla strada di casa, “di materiale umano a basso costo”… Pentole, padelle, bottiglie vuote, travi ecc. un inverno marciano sulla città, “come un esercito di pesci chiacchieroni”. Esplode un gigantesco uragano, non si va nemmeno a scuola. “Nel lamento dell’uragano si potevano sentire ogni tipo di voci, richieste, richiami e pianti”, persino quello di un padre, forse, travolto da questa furia innaturale, che non sa più – che non può più – tornare a casa… Gli apprendisti degli avvocati sono i primi a usare le biciclette in città, “appesi come ragni in quei delicati ingranaggi, appoggiati sui pedali come grosse rane saltellanti”. Qualcosa sta cambiando: “l’essere umano stava entrando […] nella sfera delle incredibili facilitazioni”. La tecnologia e la scienza fanno il loro ingresso trionfale nella vita degli uomini, che le rincorrono, folli. Così iniziano gli esperimenti d’un Padre infervorato, a tu per tu con la scienza e l’universo intero…
L’assenza di punti fermi, lo scompigliare le vecchie – solite – carte. Niente è più come prima nei racconti di Bruno Schulz – uno dei più grandi scrittori di prosa polacca del Novecento. Trionfa il disorientamento tipico del XX secolo. Le parole disegnano immagini e sensazioni (o l’assenza, lo sfumare di esse). Il passato si dissolve, spazzato via come da un uragano. Al lettore manca la terra sotto i piedi e lo stravolge un costante senso di vertigine, di bestiale anormalità (che ricorda un po’ Kafka, di cui Schulz tradusse “Il processo”). Quando si ha la sensazione di tenere il filo della storia, essa scivola via come sabbia tra le mani. Eppure, basta imparare a stringere nel modo giusto quelle parole, a carezzarle senza opprimerle, perché rimandino tutto il senso d’un’epoca, d’un’umanità smarrita, che nello sgretolare anela a ricostruire, ma senza più fissità, senza oppressioni, ma seguendo le volubili impressioni. Giravolte di fumo dall’odore acre e forte, che però evaporano presto, lasciando un senso, un sapore strano nell’aria, un alone di inquietudine: questo sono i racconti de La Via dei Coccodrilli. Brevi e duraturi insieme. Fugaci ed eterni, come un morso indimenticabile di piacere, come la promessa d’una Cometa. La scienza, la tecnologia irrompono nella parola, nell’idea, quasi le stuprano, fino a capovolgerne il senso; il vecchio, comune, sentire è soppiantato in un attimo dal languido bagliore dell’inesplorato, dell’inatteso, che sconvolge, avvolge e rinnova, fino a farsi Casa.