
Itzà sta emergendo. Da giorni ormai ha iniziato a udire i piccoli passi della pioggia, a vedere un colore diverso nella terra. Una forza potente e irresistibile la sta attraendo in superficie, verso l’interno di un albero di cui sarà linfa e vita. I rami si rianimano, fioriscono le zagare e ovunque si diffonde un intenso profumo di arance. Gli uccellini cantano come sempre, ma il mondo esterno è cambiato: ci sono grandi fioriere e costruzioni come quelle che centinaia di anni prima gli spagnoli avevano fatto costruire a lei e al suo popolo. Il giardino è ben tenuto, curato da una giovane donna bella e alta che assomiglia alle donne degli spagnoli. È sola e non sembra che lavori la terra né che sappia filare perché ha mani delicate. Attorno non si sentono suoni provenire dal tempio né si vedono sacerdoti. È la prima volta che Lavinia vede fiorire l’arancio, quell’albero vecchio piantato tanti anni prima dal giardiniere di sua zia Ines e che mai aveva dato segni di voler produrre frutti. Il fatto che l’albero stia fiorendo è sicuramente di buon auspicio, pensa Lavinia mentre si prepara per uscire. Fuori la aspetta una città di contrasti: eleganti signore proiettate al consumo e poveri cenciosi mendicanti, ville ricche accostate a misere casette, gettate di cemento a cui si oppongono vigorose le radici di una vegetazione tropicale lussureggiante. La voce esce incessante dalla radio del taxi, ormai non si fa altro che parlare del processo al comandante. Lavinia non ne può più di sentire quelle atrocità, vorrebbe un po’ di silenzio, che può trovare solo nei suoi pensieri: sogna di trasformare Faguas, di fare qualcosa di grande e indelebile, di costruire edifici che animino la pietra e rendano calda e accogliente la città, in armonia con il paesaggio. Sogna di fare di Faguas una città della vita...
Una forza primordiale e irresistibile pervade questo romanzo, scritto nel 1988 e pubblicato per la prima volta in Italia nel 1995: è la forza della ribellione e del desiderio di giustizia, la forza dell’amore per il proprio popolo e per la propria terra, su cui si vorrebbe poter vivere liberi dall’oppressione e dalla violenza. L’attaccamento potente alla propria gente e alle proprie tradizioni è rappresentato dalla figura di Itzà, la fiera combattente nahua che cinquecento anni prima diede la vita nella lotta contro gli spagnoli invasori e che ora rivive in un albero di arance. Lavinia si nutre di queste arance e bevendone il succo fa entrare nel proprio corpo lo spirito di Itzà, che così può percepirne le paure e le indecisioni, ma può anche guidarla nel cambiamento e nella scelta di azioni coraggiose, accompagnandola verso la piena emancipazione. Se infatti Lavinia all’inizio, benché indignata dalle contraddizioni forti del Paese e dalla violenza imperante, crede di non essere in grado di partecipare in modo attivo al cambiamento, grazie a eventi improvvisi sconvolgenti si distacca pian piano dagli amici di sempre e dalla propria vita tranquilla, scegliendone una - ben più pericolosa - che possa contribuire alla rinascita del Nicaragua (in questa spinta rivoluzionaria è fondamentale la presenza femminile, così come era stata essenziale già nella lotta contro i conquistadores). L’intensità delle passioni e degli ideali, ma soprattutto la capacità di evocare l’atmosfera di oppressione che si respira in un regime e il travaglio interiore che una vita da ribelle provoca in chi la pratica caratterizzano questa storia, che rievoca vicende autobiografiche dell’autrice, di cui alla fine della pubblicazione c’è pure un’intervista interessante: Gioconda Belli, poetessa e scrittrice nicaraguense, fu attiva nel Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, movimento rivoluzionario che contribuì alla caduta del regime di Somoza nel Nicaragua del 1979.