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La figlia del ferro

La figlia del ferro

Portoferraio, Isola d’Elba, fino al 1943. Nella casa di via del Paradiso ci sono tre specchi. Uno, il più grande, quello che sta sulla parete destra della parte principale, riflette lo sguardo dei curiosi che, davanti all’unica finestra, rallentano per vedere chi c’è quel giorno da Iole. Poi c’è lo specchio della toeletta che, assieme al catino, alla brocca e alla spazzola, costituisce la dote che Annarita ha lasciato alla figlia Iole, in previsione del suo futuro matrimonio. Nella lettera che accompagna il dono, Annarita consiglia alla figlia di comportarsi con giudizio e, soprattutto, di imparare un mestiere che le consenta di vivere del suo, esattamente come ha fatto lei stessa. I consigli di Annarita hanno la loro ragion d’essere: la donna, infatti, è parecchio preoccupata per la figlia. Il suo aspetto disinvolto, il suo viso tondo su cui non vi è traccia degli stenti, gli occhi scuri che, a seconda del tempo, si fanno viola e conferiscono alla ragazza un’aria ancor più sfrontata di quella abituale, già degna di nota, attirano l’attenzione degli uomini, in particolare di quelli che al matrimonio proprio non ci pensano. Quel che Annarita in realtà rimprovera, a se stessa questa volta, è di non aver spaventato a sufficienza la figlia con lo spauracchio dell’inferno. Macché, Iole nei peccati ci sguazza, eccome. Lo fa mentre si sbottona la camicia da notte fin alla riga dei seni e si sistema i capelli, mentre si osserva nel terzo specchio con il manico d’osso, quello nel quale la ragazza, mentre si rimira, ricerca i suoi sogni, quelli che la portano lontano da via Paradiso e da una vita modesta, la sua. Iole fa la lavandaia: i militari e le donne del paese le portano i loro abiti e la biancheria sporca e glieli lasciano, insieme alla raccomandazione di far sparire ogni traccia di sudiciume. E Iole lava, passa la lisciva sulle macchie e accompagna ogni suo gesto con il sorriso, quel sorriso ostinato ereditato dal padre Umberto, figlio dell’isola e del ferro. Come tutti gli isolani, Umberto ha la polvere nei polmoni e la terra sotto le unghie perché, anche se all’Elba c’è il mare e ci sono le spiagge, fino alla Seconda guerra si vive quasi esclusivamente di miniere. Umberto entra nell’altoforno a dodici anni e ne esce già marito e padre. Nel frattempo si batte per i diritti degli operai come lui ed è sindacalista. Proprio per il suo impegno nel sindacato e per le sue idee anarchiche viene messo sotto tiro dalla sezione locale del Partito fascista che, purtroppo, gli fa pagare le sue idee nel modo più terribile che si possa immaginare...

Sull’isola del ferro – l’Elba, che vive del lavoro di estrazione del metallo dalle miniere a cielo aperto – la guerra, quella che ha travolto il nostro Paese portando devastazione, non è che un’eco che si riverbera sulle coste di quel francobollo di terra e torna indietro. Ma dopo la firma dell’armistizio, l’8 settembre 1943, qualcosa cambia e anche quell’angolo dimenticato da Dio diventa teatro di un tempo confuso e durissimo; un tempo in cui le strade si riempiono di soldati stranieri che rimpiazzano gli isolani partiti al fronte e importunano le donne di casa, che da sole cercano di destreggiarsi per affrontare i problemi quotidiani. Anche nella famiglia di Iole, la protagonista del romanzo di Paola Cereda – psicologa brianzola trapiantata a Torino, dove si occupa di progetti culturali e artistici nel sociale – la figura maschile è ormai solo un ricordo: il padre, un coraggioso anarchico che non si è piegato ai dettami politici del momento, è stato ucciso dai fascisti e la giovane sedicenne, affamata di vita, affronta i bombardamenti e la fame con il sorriso sulle labbra e il profondo desiderio di essere felice. È bella Iole, è giovane e carica di vita e di sensualità; lava i panni dei soldati e spera così di liberarli dallo sporco e dall’infamia, quella del comportamento meschino di chi si sente liberatore di un popolo e, in quanto tale, autorizzato a farne ciò che desidera. Sotto il fuoco dei bombardamenti, tra i morti delle case sventrate e in mezzo agli stenti Iole continua a sorridere e a prendere a morsi la vita, incurante delle malelingue che la additano con sdegno, colpevole soltanto di non lasciarsi macchiare dallo squallore dello scempio. Ispirato a una vicenda realmente accaduta tra il 1943 e il 1944, il romanzo della Cereda racconta una pagina cruenta e dimenticata della nostra Storia; una vicenda che narra il coraggio di chi, pur vivendo all’interno di una comunità in cui la povertà la fa da padrone, mostra una dignità che se ne frega del giudizio di un perbenismo di facciata, sterile quanto inutile. Iole è una figura meravigliosa, raccontata con una penna raffinata e attenta a ogni dettaglio, che restituisce nella sua integrità la forza e il coraggio di chi non accetta la brutalità prepotente che spinge uomini meschini a sentirsi autorizzati a comportarsi da padrone. Un mondo dipinto in maniera accurata e senza sconti, che va oltre l’imbarazzo e mostra la forza d’animo, l’altruismo, il rispetto e quel profondo senso di giustizia che è più forte di tutto, anche dell’umiliazione e della morte.