Salta al contenuto principale

La figurante

La figurante

2006: Camille Tazieff, 26 anni, ha appena lasciato Parigi, sua città natale, per iniziare una nuova vita a New York ove ha trovato lavoro in una galleria d’arte. Sta cercando di mettersi alle spalle, con difficoltà, la sensazione di vivere secondo lo schema costruito per lei da una madre solo in apparenza progressista e discreta: un copione che prevede la conquista di una posizione più elevata nella scala sociale. A New York Camille deve fare i conti con una metropoli dai “prezzi stellari”, una “città cool che pretende di essere bohème” in cui “occorre essere molto ricchi per accedere a una simile povertà apparente che dà l’aria di essere distaccati da tutto”. Per qualche sera si trova a sostituire l’amica Élodie come guardarobiera presso “Indocina”, un ristorante frequentato soprattutto da europei facoltosi: qui conosce Jacques Chevalier che le parla di “SmartSex”, la sua compagnia di servizi erotici telefonici. Le spiega che spesso i clienti sono francesi, il lavoro è ben retribuito, poco impegnativo, e tutto sommato semplice: si tratta solo di “ascoltarli, assecondare i loro desideri e intrattenerli al telefono il più a lungo possibile”. Camille accetta. E qualcosa, di quegli strani confronti con una sessualità maschile in fondo miserevole, stereotipata, pian piano la conduce su un terreno inesplorato: inizia ad approfittare di ogni momento libero per frequentare il forum “sexo” del sito “Auféminin.com”, e ad instaurare chat con sconosciuti in cui, di volta in volta, si fa passare per un uomo laido, a caccia di piacere, o per una donna sposata sola ed eccitata. Dopo due anni la crisi dei mutui subprime e il crollo della “Lehman Brothers” – presso cui ha un conto con un generoso scoperto che le ha consentito di vivere al di sopra delle proprie reali possibilità –, la spinge a tornare a Parigi. “Credo sia stato durante quel periodo di errabondaggio – rivela – in quello che sembrava comunque essere un lavoro soddisfacente in un ambito anche interessante, che mi resi conto del divario tra la mia vita interiore e il resto del mondo”…

Pauline Klein, classe 1976, laurea in filosofia alla Université Paris-Sorbonne, un PhD in estetica all’Université Paris-Nanterre, studi a Londra presso la Central Saint Martins School of Arts ed esperienze di lavoro in prestigiose gallerie d’arte a New York e a Parigi, è al suo quarto romanzo, il primo ad essere tradotto in italiano. Jung, il padre della “psicologia analitica”, ispirandosi al nome che veniva dato alla maschera indossata dagli antichi attori, a simboleggiare la parte rappresentata nell’opera – definiva con il termine “Persona” il “compromesso fra l’individuo e la società su «ciò che uno appare». In un certo senso ciò è reale, ma in rapporto all’individualità del soggetto in questione è come una realtà secondaria, un mero compromesso, a cui talvolta altri partecipano ancor più di lui” (Carl Gustav Jung: L’io e l’inconscio. Bollati Boringhieri ed. 2017): il modo in cui la società vede e integra al suo interno ciascuno di noi, e in cui abbiamo imparato ad essere accettabili ed accettati dagli altri è una maschera che, se non riconosciuta come tale, oscura la nostra essenza più vera. E d’altro canto, come impara a proprie spese Vitangelo Moscarda, il protagonista del capolavoro pirandelliano Uno, nessuno e centomila il suo riconoscimento, il processo di disvelamento, può portare a conseguenze drammatiche. Ne La figurante, Camille riesce a porsi le giuste domande e a non lasciarsi convincere da risposte consolatorie e di comodo: “… Come facevano gli altri a corrispondere a ciò che erano, con un discorso da sbandierare, come facevano a trovare presso nutrite platee le prove esteriori della loro vita interiore? […] Come potevo essere a tal punto «a lato della mia vita» senza concretamente sapere in cosa «la mia vita» consisteva?”. In una società costruita sui baluardi dell’autoaffermazione, della competizione, della caccia spasmodica ad un posto sotto i riflettori, Camille sceglie di dare ascolto al proprio “brusìo interiore”, cercando la frequenza in cui ciascun evento genera illuminanti intime risonanze: pian piano quel “rumore di fondo” diviene linguaggio, specchio segreto in cui scorgere tracce del proprio vero Sé: “… Avevo vissuto nell’illusione di muovermi in direzione di un personaggio che collimava con me. In quella fase ho anche capito che era arrivato il momento di compiere il viaggio nella direzione opposta”. Sorretto da una narrazione dal ritmo avvolgente, da una scrittura in prima persona complessa e ricca di sfumature – pienamente restituita dall’opera di traduzione di Lisa Ginzburg – il romanzo racconta un percorso che non procede per rivelazioni, ma in modo obliquo, per tentativi ed esperienze: una strada di ricerca di autenticità e di accettazione, l’unica forse in grado di restituire all’esistenza il proprio reale significato.